La Provolera che ricordo io era un quartiere popolare, non ricco, ma alacre e festoso. Vi fiorivano le botteghe del piccolo commercio e degli artigiani: ricordo il calzolaio Peppe “‘a si bista”, il pizzaiolo “Coppola Rossa”, la salumeria della “Meza ’nasa”, Ciro, detto “Bannera”, per via di una gamba sifulina e di un’andatura della camminata per conseguenza ondeggiante al vento, Giro (non ho mai saputo il motivo del cambio di vocale del suo nome, per come il popolo lo chiamava) Esposito, il salumiere che aveva tanti sorrisi quanti figli, Titiello e la Paccaiola, che non hanno fatto in tempo a beneficiare della rivoluzione culturale che ha sdoganato la diversità nei gusti sessuali, il falegname Fucentese.
Fra gli ultimi ad andarsene - da poco - sono stati don Ferdinando, il mio barbiere finché ha lavorato e Tittina, che vendeva un po’ di tutto, dai giocattoli per bambini all’acqua minerale e ai detersivi, ma soprattutto era diventata nel tempo la custode delle tante memorie del luogo, di cui non faceva commercio e che tuttavia regalava con generosità. Ora continueranno ad osservarsi e a colloquiare, come in vita, dall’uno all’altro angolo della strada, ma stavolta ciascuno dalla propria nuvola. Memorabile l’addio alla seconda: c’eravamo tutti a salutarla, con le note del silenzio fuori ordinanza che squillavano malinconiche e pure orgogliose da una tromba incongrua (o forse no: vivere a via Parini significa più che altrove combattere la battaglia quotidiana per la vita).
Il ricordo di quello che era stata la zona si coglie ancora oggi nei nomi poetico-rurali o da Monopoli delle strade e dei vicoli: via dell’Asilo infantile, vico del Fico, vico Gelso, vicolo Rotto. Era il quartiere dove - essendoci nato e risiedendovi ancora oggi - ho passato l’infanzia coi miei genitori, Rachele Torella di Romagnano e l’avvocato Giuseppe Prisco, cugino e omonimo del più celebre Peppino,vicepresidente dell’Inter dei Moratti e di Fraizzoli (mentre mio padre era stato il legale e poi perfino presidente del Savoia). Vi ha vissuto bambino, ragazzo e uomo, da pediatra amato dai bambini ai quali regalava caramelle e rispettato dai loro genitori, nonché da “saggio” per chiunque ricorresse a lui per un consiglio, mio fratello Enrico, andatosene d’improvviso ancora giovane, all’alba di un bruttissimo sabato di gennaio di tre anni fa. A via Parini aveva anche abitato da signorina con le sorelle l’ultima mia zia oggi rimasta in vita, Ernesta, per gli amici e i familiari però “Pinotta”. Il nomignolo le era stato affibbiato quando mio nonno, che prima di lei aveva già tre figlie, aspettava Giuseppe, mio padre, ma era invece arrivata lei. Peppino era poi arrivato, ma il diminutivo divergente le era rimasto e ne abbiamo salutato lo scorso quattro settembre, a Baronissi dove abita, gli ancora lucidi cent’anni. Di mio zio Michele, lo scrittore ultimo nato dei fratelli, la presenza da giovanotto è rammentata da una targa apposta a cura dell’Istituto alberghiero sul nostro palazzo di famiglia. Io ovviamente non c’ero ancora, ma da noi e grazie a lui venivano scrittori, pittori, intellettuali amici – da Mimì Rea a Ennio Flaiano, da Enrico Accatino a Gigi Amirante, che è stato poi un illustre romanista - tutti costretti dall’inflessibile dolcezza di mia nonna Anna a recitare il rosario, come lui ha poi raccontato. E tra i suoi amici fraterni c’era anche l’eterodosso sovversivo “Paganiello“ (poi diventato un rigoroso professore di matematica), che si era fatto chiudere di nascosto nella casa del Fascio - che ancora oggi c’è, residenza di molte famiglie alla fine di Via Parini verso via Vittorio Veneto - per incendiarla nottetempo. L’episodio è raccontato in chiave memorialistico-lirica - con altre vicende della città nel romanzo "La quinta stagione dell’anno" dal più giovane narratore Vincenzo Esposito.
Nel quartiere è nato ed ha abitato a lungo anche il mio fratello di latte, Pasquale Amatruda, con la sua numerosa famiglia d’origine: ora siamo invecchiati, ma lui è rimasto secco come uno stecchino e non manca mai – quando ci incontriamo – di rimproverarmi perché (così dice) la sua costituzione fisica è dipesa dal mio avergli rubato il latte della madre, che mi ha fatto da balia. C’erano i fratelli Frega (Franco, ottimo chirurgo, ancora ci vive con la famiglia, Davide se n’è andato anche lui) e una bellissima ragazza inquieta - ne ricordo il nome, ma qui non lo farò, per lasciarla alla pace che aveva tanto cercato - consumata fino all’autodistruzione da un male di vivere che il suo sorriso aveva nascosto a noi tutti – familiari, amici, semplici conoscenti - che non avevamo capito.
Non ne ho ricordo personale, ma ci sono stati in passato un boschetto, un canale ora coperto del Sarno, una cappella in una dimora gentilizia - Villa Vitelli - ormai ridotta a rudere e nascosta da un muro agli sguardi, una segheria, soprattutto la scuola media “Alessandro Manzoni” (la mia stessa, oggi prima accorpata all’Alfieri e poi “uccisa” anche nel nome, che non si è perpetuato: l’edificio dove si trovava ospita oggi servizi comunali). C’erano gli uffici dell’acquedotto, c’è stata per un certo periodo anche la sede municipale, dopo il terremoto del millenovecentottanta e soprattutto c’era e c’è ancora lo Spolettificio, dove però adesso si fa rimessaggio e riparazione di auto della pubblica amministrazione. È stato infatti anche un quartiere di orgogliosi operai, la Provolera, dunque di grandi figure e passioni politiche – Angelo Abenante, Peppe Popolo – e ancora una volta di strade dai nomi che evocano personaggi impegnativi (via Andrea Costa, ad esempio), ma da tempo anche questa stagione è finita.
È vero che sono emersi al suo limitare gli inestimabili tesori archeologici dell’antica Oplonti, ma con la crisi del lavoro sono arrivati nel quartiere prima il contrabbando di sigarette e poi il traffico di droga. Cambiano anche i modi per scommettere sul futuro: dove una volta c’era il “banco lotto”, per tentare con pochi soldi la fortuna e sistemarsi la vita, ora c’è un’agenzia di scommesse. A Torre ogni tanto si spara e si uccide, ma non ricordo qui un morto ammazzato fino a quando, pochi anni fa, è successo anche questo. Del resto, mentre scrivo, ci si interroga sulle cause dell’ennesima recrudescenza di omicidî di giovani camorristi, o semplicemente di ragazzi border-line a rischio, vittime di scontri fra opposte bande per il controllo del territorio o soltanto (soltanto?) di adolescenze tormentate, perse per noncuranza e disattenzione di adulti distratti e lontani. Perché mai unicamente la Provolera, nell’area macro-metropolitana partenopea, dovrebbe dunque essere un’isola felice? Perché mai dovrebbe solo qui venire ad esempio debellato lo spaccio?
Ora quattro associazioni del territorio hanno sollecitato un intervento per monitorare i rom che da tempo si sono installati in zona (prima c’erano stati e in parte ci sono gli ucraini e soprattutto le ucraine, in genere donne belle, energiche - molte sono badanti - dall’aria sempre in po’ distante e vaga). Il motivo dichiarato dell’iniziativa è la presenza di immigrati anche presumibilmente irregolari e il controllo dell’assolvimento dell’obbligo scolastico da parte dei loro bambini. Si può aggiungere il sospetto di allacciamenti illeciti ad utenze di luce e di altri servizi, o la scarsa osservanza dell’igiene pubblica, con l’abbandono di rifiuti in strada a qualunque ora e in luoghi non prestabiliti allo scopo. Il problema innegabilmente esiste, benché comportamenti analoghi siano tenuti pure da soggetti autoctoni. Il fatto è che nessun censimento della popolazione di nessun quartiere e contrasto di comportamenti socialmente indesiderabili funziona da solo, se non è accompagnato da luoghi e pratiche concrete di integrazione, che conservino e ravvivino - come sarebbe fondamentale che avvenisse - la memoria collettiva. La scuola è uno di questi. Tenerla aperta anche il pomeriggio per farvi svolgere attività destinate ai ragazzi e agli anziani sarebbe stato fondamentale e invece (lo si ricordava) la si è chiusa per esigenze di accorpamento di istituti educativi e di miopi calcoli di risparmio di spesa. Il volontariato presso la parrocchia prova a sopperire, ma ovviamente non è la stessa cosa. Riaprire botteghe, aiutare i mestieri tradizionali anche con sconti ed esenzioni da tasse comunali, in cambio di manutenzione degli spazi pubblici da parte dei privati, sarebbe un’altra misura indispensabile. Non ha avuto successo, sotto questo profilo, ricomprendere il quartiere nella “zona franca urbana”, giacché nessuna attività economica incentivata da condizioni tributarie favorevoli vi è stata riallocata, come ad esempio caffè, un qualunque impianto sportivo pubblico (la palestra privata di boxe fa invece tanto, allevando campioni) o bed&breakfast, né si registrano interventi di recupero di immobili fatiscenti, ormai abbandonati per andare a risiedere nei quartieri a nord della città o in paesi e città vicine. Senza lungimiranza delle istituzioni e convergente intelligenza delle energie private non possiamo aspettarci tuttavia un reale recupero e una corretta ripopolazione dei luoghi.