A cura della Redazione
Gli attacchi dell’arcivescovo-prelato Carlo Liberati all’amministrazione comunale di Pompei si rinnovano con nuovi argomenti. Oramai non fanno più notizia. L’ultima in ordine di tempo è l’alzata di scudi contro l’istituzione della tassa d’ingresso a Pompei dei bus turistici diretti agli Scavi o al Santuario della Madonna del Rosario, introdotta dal sindaco D’Alessio (nella foto), nello spirito di federalismo comunale, anche se si devono ancora studiare bene modi e tempi di attuazione, per evitare che una felice intuizione si trasformi in un bumerang. L’uscita sulla stampa di Liberati avverso al deliberato della giunta D’Alessio ha suscitato finanche la vibrata reazione di un pompeiano che dalle pagine di un autorevole quotidiano nazionale ha tuonato contro l’indebita intromissione dell’Arcivescovo-Prelato. “Dai a Cesare quello che è di Cesare …” è un motto che di tanto in tanto i pompeiani sono costretti a rinfacciare a Liberati, che si difende con l’argomento che non dorme la notte per pensare al mantenimento di oltre duecento persone che dipendono dalla sua Curia. Sul versante opposto gli hanno fatto presente che la sua cura vescovile dovrebbe essere orientata nei confronti di tutta la comunità pompeiana, non limitata ad una cerchia ristretta. Il contenzioso fiscale tra Comune e Chiesa di Pompei è l’ultimo episodio che ha suscitato le invettive (in un pubblico convegno) dell’Arcivescovo contro l’amministrazione locale. Il fatto è che la legge prevede l’esenzione dell’ICI per attività sociali della Chiesa (assistenziali, previdenziali, didattiche, sanitarie, culturali, ricreative e sportive). Secondo la tesi del dirigente del comparto esattoriale del Comune la Chiesa nella sua dichiarazione dei redditi ha escluso dal pagamento della tassa degli immobili non solo quelli dedicati al culto ed alle opere caritative, ma anche i palazzi, le ville e gli appartamenti utilizzati per fare cassa. Vale a dire alberghi, banche, musei, o adibiti come ospizi di lusso, oltre che al recepimento di attività commerciali, come risultano dalle indagini comunali e dalle scritture catastali. L’Arcivescovo non ci pensa nemmeno a pagare la tassa comunale e se la prende con l’Ente comunale che è ricorso in cassazione per farsi riconoscere in contenzioso fiscale quanto gli compete perché i soldi delle tasse servono alle spese pubbliche di cui beneficia l’intera collettività, anche la Chiesa. MARIO CARDONE