A cura della Redazione

A Pompei c’era un solo Lupanare (bordello) ma la prostituzione si praticava in numerosi siti a partire dalle osterie (caupone) ma anche nelle terme e nelle case private e nei panifici.

Se nel famoso centro commerciale (e marittimo) vesuviano il lupanare era uno solo, di osterie ce n’erano più di cento ma solo in una ventina di esse - è stato dimostrato dagli studiosi -, insieme alla vendita di cibo e bevande, le schiave che servivano a tavola offrivano anche prestazioni hard agli avventori all'interno di stanze private. La distinzione tra la casa di tolleranza dei primi secoli dopo Cristo, che nell'antica Pompei si trovava in una piccola palazzina di due piani all’incrocio di due vicoli poco distanti dal Foro Centrale, e gli altri siti palcoscenico di meretricio, frequentemente abbinati alla somministrazione di cibi e bevande o all’igiene intima, è fondamentale.

Difatti se nell’impero romano l’esercizio del meretricio era completamente libero, il suo pubblico esercizio marchiava d’infamia le donne che lo praticavano per mestiere. Con intuibili conseguenze negative sul piano dell’esercizio dei diritti civili.

L’infamia, tra l’altro, era un connotato che si trasmetteva agli eredi. E’ curioso notare, però, che le sanzioni del diritto romano erano rivolte esclusivamente alle donne che vendevano sesso nei lupanare e non le schiave (o liberte) che si prostituivano in siti diversi solo per l’insegna dei locali.

In questi secondi casi gli incontri molto frequentemente avvenivano in dependance site ai piani alti o in locali attigui a quelli della ristorazione. E’ singolare il fatto che il diritto romano ponga limiti e sanzioni alla distribuzione di cibi cotti nei locali pubblici mentre si disinteressa dei modi e delle pratiche del mestiere più antico del mondo, legato alla tradizione ed alle cautele igieniche pratiche che si trasmettevano nell’ambiente.

Le prestazioni erano spesso raffigurate in vignette che rappresentavano i quindici tipi di prestazioni all’epoca praticate. Per ognuna di esse era previsto un prezzo che andava (a seconda anche del rango delle prostitute) dai due agli otto assi. Per avere un’idea del valore economico di una prestazione sessuale a pagamento nell’epoca in cui Pompei fu distrutta dal Vesuvio, basti pensare che per un bicchiere di vino in una caupona si pagava un asse. Ora, attenzione, a rappresentare Pompei con l’immagine di una Amsterdam dei tempi antichi, come si apprende dal racconto suggestivo (ma non rispondente) di alcuni “ciceroni” che praticano negli Scavi di Pompei.

E’ un paragone che non regge all’evidenza dei fatti. Lo ha spiegato con esempi concreti il professore Vincenzo Scarani Ussani nel corso della conferenza del 24 settembre scorso presso l’Auditorium degli Scavi di Pompei.

Le prostitute dell’antica Pompei (come quelle di tutto l’impero romano) erano povere disgraziate sul piano economico in quanto, prive di personalità giuridica, erano costrette a riversare tutto il ricavo giornaliero ai loro lenoni o padroni che a stento offrivano loro il nutrimento e il letto per la notte.

Al contrario delle “signore del sesso a pagamento”, che oggigiorno esibiscono il corpo come merce di lusso nelle vetrine dei quartieri a luci rosse delle capitali del sesso di tutto il mondo. 

twitter: @MarioCardone2  

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