A cura della Redazione
In “Napoli Milionaria”, forse il più profetico ed attuale dei capolavori di Eduardo De Filippo, l’angusto ed asfittico spazio di un basso napoletano, ‘o vascio, ingombro di povere cose, miseria e di un’umanità derelitta, si trasfigura in simbolico contenitore delle afflizioni e della tragedia di un intero popolo. Un destino drammatico nella sua implacabile durezza costituisce l’orizzonte lungo il quale si muovono le vicende della famiglia di Gennaro e Amalia Iovane che insieme ai loro figli e ad una serie di altri personaggi sono, in misura più o meno diversa, travolti e trascinati dalla guerra e dal cedimento dei valori sull’orlo del precipizio. Quella raccontata è una vita dolente che consuma e abbruttisce un’umanità umiliata, condannata a resistere al buio dei vicoli, alla fame, ai bombardamenti, nella quale «contrabbando, furto, prostituzione - così come scrive Ghirelli nella sua “Napoli italiana” - diventano i settori trainanti dell’industria napoletana, quella che l’antica saggezza di Pulcinella chiamava la fabbrica dell’appetito(...) dove migliaia di virtuose popolane e di compunte ragazze del ceto medio battono il marciapiede con feroce avidità, sono diventate segnorine disposte a barattare le proprie grazie contro una scatoletta di corned beef o un pacchetto di Chesterfield». Questo il drammatico momento storico che fa da sfondo a Napoli Milionaria, scritta non a caso proprio nel 1945. Una commedia difficile, complessa, faticosa, alla quale i filodrammatici della “Piccola Ribalta Oplontina” si sono accostati con amore e riverente rispetto filologico. Agli spettatori che nelle serate di sabato e domenica scorsi hanno affollato il teatro Mattiello di Pompei, questi attori per diletto hanno saputo restituire, grazie alla passione ed all’entusiasmo profusi, il senso profondo della poetica eduardiana. Una poetica che non si limita al solo evangelico solidarismo del «Chi prima, chi dopo, ognuno deve bussare alla porta dell’altro», pronunciato dal ragioniere Spasiano nell’atto di consegnare a donna Amalia l’introvabile medicina che le consentirà di salvare la figlioletta, ma che si addensa soprattutto nella dolente e vigile consapevolezza che la guerra non sia finita con la cessazione delle ostilità e che si apparecchino tempi difficili dai quali occorrerà difendersi. “La guerra non è finita, la guerra non è finita...”. Ed è proprio l’inascoltata riflessione ad alta voce di don Gennaro Iovane, protagonista maschile dell’opera, più che l’arcinota “addà passà a nuttata”, a rappresentare forse l’aspetto più realistico ed al tempo stesso profetico della commedia. La dolente attesa che passi la notte, pur se giustificata dall’aspettativa della guarigione della bambina, rappresenta per certi versi l’antico ed irrisolto limite della rassegnazione fatalistica. A questo fatalismo attendista don Gennaro Iovane intuisce che andrebbe contrapposto un più intenso spirito agonistico. L’invisibile ma fondamentale figura della “criatura”, diventa così la metafora più evidente della cattiva coscienza di un popolo e al tempo stesso, strumento di purificazione e riscatto. Un invito all’azione, all’impegno nella dimensione della cultura, del sociale, della solidarietà, che gli amici della Piccola Ribalta hanno raccolto e fatto proprio da tempo. Non a caso gli applausi finali indirizzati agli attori, impossibile menzionarli tutti, al regista Luigi Marasca e a quanti hanno consentito la messa in scena della commedia, sono il giusto ed ammirato riconoscimento sia ai sacrifici affrontati che ad una recitazione il cui merito fondamentale è stato quello di arrivare, senza impedimenti di sorta, al cuore degli spettatori. BIAGIO SOFFITTO (Dal settimanale TorreSette del 14 gennaio 2011) Clicca quì per la FOTO GALLERY