A cura della Redazione
In occasione delle commemorazioni legate al 150esimo Anniversario dell’Unità di Italia, vogliamo dare un nostro piccolo contributo storico, in base agli elementi documentari in nostro possesso, sulla condizione dell’epoca della nostra città. Ovviamente la questione merita uno sforzo maggiore, sia per l’importante momento che il tessuto sociale attraversava, sia per il suo aspetto evolutivo urbano ed economico. Cerchiamo di capire innanzitutto come era Torre Annunziata negli anni dell’Unità, per poi passare alle altre realtà ad essa collegate. La città era abbastanza diversa da quella che siamo abituati a vedere al giorno d’oggi. Il territorio amministrato contava circa 15.500 anime, a fronte delle 43.943 registrate nel marzo 2010, con un territorio che era circa la metà di quello odierno. Il tessuto urbano era in piena espansione, tranne l’area del borgo antico, che oramai aveva assunto già da tempo la sua attuale disposizione urbanistica. Dopo il breve capitolo napoleonico, lo striminzito territorio urbano guadagnò spazi vitali. La città trovò nuovi confini che si estendevano dall’attuale chiesa di San Francesco, o Madonna delle Grazie, ancora di pertinenza del confinante territorio di Boscoreale, alle contrade del Carminiello verso Sud-Est, fino ai territori di Capo Oncino, in direzione Nord, che rientravano ancora in quelli che erano i casali del vicino comune di Boscotrecase. Venne così acquisita la intersecata borgata di Terravecchia, che comprendeva il quartiere del polverificio, o “Pruvulera”, ponendo rimedio alle annose questue legate a quel lembo di territorio, sia di natura economica che implicanti la libera esistenza dei suoi abitanti. Oltre l’incremento territoriale, l’amministrazione comunale aveva goduto di importanti acquisizioni immobiliari. Tra queste ci è doveroso segnalare le acquisizioni delle pertinenze dei soppressi ordini monastici presenti sul territorio. E nel 1861, la città godeva di quanto appartenne a due dei tre ex conventi eretti sul territorio urbano cittadino (gli olivetani del convento di Santa Teresa, i Carmelitani del Convento di San Gennaro e i Padri Celestini del Convento dell’A.G.P.). Solo una parte del Convento di Santa Teresa, appartenente ai padri Olivetani, venne nuovamente ridonato all’ordine monastico con il ritorno dei Borbone a Napoli, nel 1815, mantenendolo poi anche dopo l’unità nazionale. Nello spazio urbano, la Strada Regia faceva da guida all’espansione territoriale in corso. Lungo l’arteria nacquero i più importanti edifici gentilizi e le più rinomate realtà imprenditoriali dell’epoca. Torre Annunziata si presentò al neo governo sabaudo come uno dei centri industriali più importanti e floridi dell’intero meridione. E questa nuova epoca divenne occasione, per l’intera cittadina, per l’attuazione di opere di “restyling” che si adattavano ai nuovi piani industriali e urbani meglio congeniali alle nuove esigenze imprenditoriali che si profilavano. Ad avere da subito i primi benefici fu il borgo antico, dove le strade ancora erano di nuda terra. Qui si attuarono le prime opere di lastricatura e l’installazione di un primo sistema fognario. Per il beneficio delle nuove opere non si escluse il sacrificio di opere più antiche le quali, al giorno d’oggi, potevano essere di notevole importanza storico-architettonica. Venne programmato e attuato l’abbattimento di Porta Grande, opera di origine feudale, che fungeva da ingresso dalla strada Regia al borgo antico e all’agorà cittadino. La demolizione del monumento venne decisa, ovviamente, perché doveva essere ritenuto d’intralcio al flusso commerciale che dall’arteria affluiva, tramite l’attuale Via Alfonso De Simone, alle spiagge, e viceversa. Continuando con le vie di comunicazioni e i vari collegamenti con le altre regioni del Regno, Torre Annunziata poteva già contare, da circa 20 anni, su una strategica linea ferroviaria e uno scalo portuale, seppur ancora rudimentale, dove trovavano approdo, o semplicemente stando alla fonda, velieri e grossi bastimenti che sempre più frequentemente facevano uso dello scalo marittimo per lo scarico delle risorse primarie che andavano a servire l’affermato sistema industriale cittadino e il carico delle merci ivi prodotte, e quelle dei comuni della pedemontana vesuviana. E visto il sempre più consistente afflusso di navi e l’interesse strategico dello scalo portuale, all’opera di restaurazione cittadina, appena dopo l’unità, venne aggiunto anche un progetto che prevedeva la realizzazione di un nuovo approdo per le merci degno di una città in piena espansione industriale. L’arduo progetto, abbozzato in questi anni, a causa dell’enorme cifra da investire e le non poche problematiche legate al nuovo sistema burocratico, trovò il suo epilogo solo all’inizio del XX secolo. Intanto non vi era più la polveriera, trasferita a Scafati nel 1857 a spese del comune per questioni di sicurezza visto il coesistere in un Comune sempre più popoloso e oramai votato a piani industriali ben diversi da quelli disposti dal precedente periodo borbonico. Comunque sia, la Fabbrica d’Armi continuava nella sua produzione di materiale bellico divenendo uno degli opifici di importanza essenziale per il neo governo sabaudo. Anche l’industria metallurgica trova nel contempo un’affermata realtà con l’istituzione, da qui a poco, delle Ferriere del Vesuvio. L’intero processo di restaurazione, logicamente, non poteva tenere lontano l’industria molitoria. Si passò ben presto dagli arcaici impianti idraulici di molitura a quelli mossi dalla forza del vapore, e ciò permise la nascita di una miriade di piccole realtà industriali dedite all’arte della pasta o ad essa collegata. Nel 1861, il quartiere “Murattiano” si mostrava come un ricco e fruttuoso centro di commercio. Un pullulare di anime e maestranze in movimento senza eguali in tutta la storia del meridione d’Italia. Qui era concentrata più del 50 per cento dell’intera industria del grano locale. Il molino Orsini, esistente fin dal 1848, risultava uno dei primi impianti ad allinearsi alle nuove tecnologie mosse dal vapore. Ad esso seguirono i molini Dati e Dino, che erano per l’epoca i maggiori impianti esistenti sul territorio, e man mano andarono ad adeguarsi anche gli altri impianti onde non perderne le capacità competitive. A tutto questo adeguamento, ovviamente, risultò interessata anche la classe operaia. Ma gli eventi garibaldini in corso non ebbero un grosso impatto di cambiamento sull’affermata realtà borghese che teneva le redini della città. Si preferì guardare ancora con occhio guardingo la neo venuta Casa Reale piemontese, restando molto attenti al susseguirsi degli eventi. Ciò derivava dal fatto che Torre Annunziata, come abbiamo visto, era una terra florida, dove regnavano un certo benessere e stabilità tra le varie classi sociali, e non si escludevano preoccupazioni sull’impatto che potevano procurare le nuove leggi e il processo di restaurazione, anche sociale, che di lì a poco dovevano entrare in vigore e che poteva creare destabilizzazioni e mutamenti di pensiero in questa idilliaca realtà. Avevano ragione. L’idillio durò poco. A seguito dell’unità, tra le classi operaie iniziarono a diffondersi i primi risentimenti verso le metodologie industriali applicate dai padroni. Cominciava a profilarsi l’influenza delle nuove ideologie socialistiche e comunitarie. E da questo momento in poi, Torre Annunziata stava per divenire una delle città più importanti del Regno d’Italia dove i movimenti votati ai diritti dei lavoratori, alle ideologie sociali, iniziarono a muovere a favore della sottovalutata, e talvolta, schiavizzata classe operaia. Vincenzo Marasco (Dal settimanale TorreSette del 18 marzo 2011)