A cura di Anna Casale

A Napoli, “‘o paese d’ ‘o sole e d’ ‘o mare”, città dalle origini pagane, la spiritualità è linfa viscerale. In essa si racchiudono, convivono e si fondono i contrasti: il folklore, la tradizione, il culto e la leggenda.

Il culto dei morti per il popolo partenopeo, per quanto “macabro” possa sembrare è antichissimo e la devozione riservatagli estremamente affascinante.

La chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco ed il Cimitero delle Fontanelle (il nome deriva dalla presenza di fonti d’acqua), fin dal 1600, sono i luoghi simbolo per la devozione alle anime pezzentelle (dal latino petere: chiedere per ottenere), di cui si venerano i resti: le ossa ed i teschi chiamati capuzzelle. Morti dimenticati, senza famiglia, senza identità, non abbastanza ricchi da potersi permettere “un posto” dopo la morte. Le anime, per meglio intenderci, del Purgatorio, che per credenza non sono riuscite a riscattarsi in vita.

Nei secoli addietro le pestilenze e le epidemie convinsero la popolazione partenopea che queste avvenissero a causa dei propri peccati, sicché la venerazione delle anime dei defunti divenne il rifugio per i vivi dalla disperazione. Come una sorta di “contrappasso” i vivi decisero che era giunto il momento di venerare la morte ed in qualche modo “farsela amica”.

Alle capuzzelle era attribuito il potere di esaudire le preghiere di chi le adottava e per questo gli altarini in loro onore erano e sono sempre adornati di fiori, pizzi, merletti e doni. Tra le capuzelle più “famose” vi sono: ‘a capa' di Donna Concetta, un teschio che suda, la cui interpretazione è la buona volontà dell'anima nell’esaudire le preghiere e ‘a capa ‘e Pascale, il teschio del monaco a cui si chiedono numeri del Lotto vincenti.

Le anime pezzentelle si ritrovano anche nel presepe napoletano: il monaco, il mendicante, lo zoppo, tutte figure di petenti (coloro che chiedono).