Oggi cade l’anniversario della tragedia di Superga. Il 4 maggio 1949, l’aereo con a bordo l’intera squadra del Grande Torino (dieci giocatori in nazionale e cinque scudetti consecutivi), si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della basilica di Superga, che sorge sulla collina torinese.
Persero la vita tutti i calciatori, l’allenatore, i dirigenti, gli accompagnatori e tre giornalisti sportivi al seguito: Casalbore, Tosatti e Cavallero, oltre a tutto l’equipaggio. Il processo civile che ne seguì, proposto dal Torino contro la compagnia aerea A.L.I. SpA, fu la scintilla che accese la discussione intorno alle associazioni sportive. All’epoca, infatti, non vi era l’obbligo di costituire delle società di capitali, introdotto con la legge n. 91/1981 e i calciatori non erano dei lavoratori subordinati. Il Torino chiese il ristoro dei danni alla compagnia aerea, avendo perduto tutto il suo patrimonio, costituito dal valore delle inimitabili prestazioni agonistiche dei suoi calciatori e la possibilità di ricavare introiti dalle operazioni di cessione dei giocatori. Bisogna pensare che, non essendo dei lavoratori subordinati, i calciatori venivano comprati e venduti, come se appartenessero materialmente alle associazioni sportive.
Si affacciarono concetti nuovi: mercato calcistico, impresa, azienda. Fino a quel momento, le associazioni sportive erano viste come un complesso di atleti riuniti da una comune passione sportiva. Il Tribunale di Torino (sentenza del 15 settembre 1950, in Foro Italiano, 1950, I, c. 1230), investito della questione, rigettò la domanda dei granata poiché la società non poteva vantare verso i giocatori un diritto reale o assoluto che potesse giustificare la tutela richiesta: “Nessun bene dell’attrice è stato leso direttamente dalla convenuta. Soltanto i calciatori, non i piloti dell’A.L.I., potevano violare i diritti patrimoniali del Torino: poiché nessun vincolo, all’infuori di quello di prestazione d’opera, li legava, e il preteso collaterale rapporto di appartenenza non ha la consistenza di un diritto reale, valevole erga omnes, e in quello si confonde e si esaurisce”.
La sentenza ebbe vasta eco e fu commentata da valenti giuristi, tra cui i professori Walter Bigiavi, Rosario Nicolò, Paolo Greco e Salvatore Pugliatti, che la criticarono fortemente e che furono chiamati dallo stesso Torino per esprimere un parere pro veritate da allegare all’atto di appello. Il prof. Bigiavi, sostenne che il rapporto di “sudditanza calcistica” si fondasse sul meccanismo del tesseramento e del vincolo a favore dell’associazione e avesse efficacia erga omnes, poiché all’epoca il calciatore, finché non veniva inserito nelle “liste di trasferimento”, non poteva militare in altre squadre o tesserarsi per società diverse.
Nonostante i pareri autorevoli, l’appello del Torino fu rigettato, con la sentenza della Corte di Appello di Torino del 23 gennaio 1952 (Foro Italiano, 1952, I, c. 219), con cui fu respinto il concetto di appartenenza come vincolo reale e oggettivo e riaffermata la natura obbligatoria, richiamando la matrice convenzionale dell’efficacia dei regolamenti sportivi che la contemplano. Ridimensionata la portata giuridica del vincolo di appartenenza, la Corte di Appello di Torino espresse riserve sulla configurabilità dell’impresa e dell’azienda sotto la specie dell’associazione calcistica, mancando il fine di lucro.
Il Torino affidò il ricorso per cassazione agli avvocati Sequi, Cobianchi, Nicolò e Bianco. Tre i motivi di ricorso: il primo sulla violazione dell’art. 2043 del codice civile, la norma che obbliga chiunque cagioni un danno derivante da fatto illecito a risarcirlo. Gli altri due sulla lesione del diritto assoluto. La Corte di Cassazione, in motivazione, pur usando il condizionale sulla possibilità di considerare come azienda un’associazione sportiva, non convenne sulle tesi del Torino, poiché “i beni che entrano a far parte dell’organizzazione aziendale non mutano per questa natura né acquistano una diversa e più ampia tutela giuridica di quella loro propria”. Insomma, la Corte di Cassazione, con la sentenza 4 luglio 1953 n. 2085 (Presidente Valenzi, Estensore Mastropasqua, PM Berri), ribadì che il bene aziendale a servizio dell’impresa è rappresentato dal diritto alla prestazione sportiva, che è esclusivamente di credito.
Sembra preistoria, oggi che le società di calcio sono addirittura quotate in borsa. Ma il dibattito sulla rilevanza o meno dello scopo di lucro per l’identificazione dell’associazione sportiva con l’impresa di pubblici spettacoli si riproponeva spesso e teneva impegnati i giuristi dell’epoca. Il Consiglio Nazionale della Federcalcio, con delibera del 16 settembre 1966, dispose lo scioglimento degli organi delle associazioni calcistiche affiliate alla Lega nazionale, nominando commissari straordinari con pienezza di poteri e col compito di precedere alla costituzione di società per azioni. Il provvedimento fu impugnato e dichiarato illegittimo dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2028 del 20 giugno 1968.
Il Savoia salvato dal fallimento
Ancora, nel 1974, l’assenza di fine di lucro salvò il Savoia, la squadra di calcio di Torre Annunziata, dal fallimento. Infatti, il Tribunale di Napoli (Presidente Candia, decreto 20 febbraio 1974 in Rivista di Diritto Sportivo, 1974, p. 30) rigettò il ricorso di fallimento proposto dai creditori del Savoia Calcio, poiché “le obbligazioni dedotte a fondamento dei ricorsi in atti risultano assunte dalla Associazione Polisportiva Savoia, costituita senza finalità speculativa e al solo scopo di incrementare il vivaio locale dei giocatori di calcio mediante competizioni sportive del gioco del calcio e non risulta sia stato conseguito dai suoi soci (gestori o aderenti) alcun utile economico. Non era un’impresa, non poteva fallire. La parola fine fu posta dal Legislatore, con la legge n. 91 del 1981 sul professionismo sportivo.
Nino di Somma