A cura della Redazione

C’era un carico di cocaina pagato 178mila euro che preoccupava i Tamarisco e un loro emissario era già andato due volte in Ecuador a controllare che fine avesse fatto. 

È quanto emerge dalla testimonianza di uno dei finanzieri del Gico di Napoli che ha indagato per mesi sul traffico internazionale di stupefacenti che faceva arrivare grosse quantità di polvere bianca dal Sud America fino al Vesuviano, passando per il porto di Salerno, grazie alla complicità di decine di persone, tutte collegate al boss Bernardo Tamarisco. Da Torre Annunziata, il capo della famiglia di narcotrafficanti del rione Poverelli avrebbe gestito per anni un fiorente import di stupefacenti, da smistare alle varie piazze di spaccio della zona. Questo, grazie ai suoi legami con i narcos napoletani Salvatore Iavarone, con base in Ecuador, e Claudio Scuotto, per anni latitante in Spagna. 

Ora a processo a Torre Annunziata, con rito ordinario, ci sono una quindicina di fiancheggiatori del gruppo Tamarisco, con i capi già giudicati in abbreviato e condannati anche in Appello. Nel corso della prima vera udienza dibattimentale di ieri, l’accusa ha ricostruito lo scenario investigativo, con l’ultimo carico forse non approdato mai a Salerno e poi a Torre Annunziata, nonostante Sergio Romano, uno degli imputati, fosse andato due volte in Ecuador per controllare dove fossero finiti i soldi delle “puntate” partiti dal Vesuviano. 

Nel corso delle indagini, i finanzieri hanno avuto molte difficoltà. Ad esempio, ad intercettare Bernardo Tamarisco, abile a camuffare la sua voce quando ospitava qualcuno: appena entravano ospiti in casa, la tv veniva accesa a volume altissimo e i dialoghi erano spesso in torrese stretto, con linguaggio criptico. 

Inoltre, Scuotto, Tamarisco e Romano utilizzavano una chat particolare per comunicare tra loro. A parte le conversazioni telefoniche che partivano da una cabina pubblica di Pompei, le discussioni avvenivano solo via Blackberry, un modello di cellulare che permetteva una chat “pin to pin”, simile a WhatsApp ma con accesso che avviene solo dopo l’inserimento di un pin e l’accettazione dall’altro capo del telefono. E lì, le parole in codice si “sprecavano”, con riferimenti a cibo, locali e oggetti a caso che, in realtà, celavano l’organizzazione di importazioni di cocaina dall’Ecuador.