A cura della Redazione

Dovranno restituire alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l’informazione e l’Editoria - a titolo di risarcimento del danno erariale, la somma di oltre 2,8 milioni di euro, in aggiunta alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali.

Questo è il dispositivo della sentenza di condanna emessa dalla Sezione Giurisdizionale per la Regione Campania della Corte dei Conti su richiesta della Procura Regionale di Napoli in riferimento ai fatti emergenti dalle investigazioni condotte dalla Guardia di Finanza di Caserta e Taranto, nei confronti di una cooperativa a responsabilità limitata, oggi in liquidazione coatta amministrativa, editrice di un quotidiano locale, nella cui amministrazione i soggetti condannati si sono alternati dal 2005 al 2011.

All’esito di tali accertamenti, l’autorità giudiziaria erariale ha acclarato e contestato come la società cooperativa, già con sede nella provincia di Taranto, dal 2008 al 2011 fosse risultata solo formalmente in possesso dei requisiti di legge per la percezione dei contributi pubblici di scopo.

La Guardia di Finanza di Taranto, nel 2015, nello svolgimento di specifiche e mirate attività ispettive, successivamente implementate dalle Fiamme Gialle casertane, ha rilevato e documentato alcuni elementi di criticità inerenti ai rapporti degli associati con gli organi sociali. È stato, difatti, appurato che alcuni degli amministratori, legali e di fatto, della società hanno prodotto, al Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dichiarazioni mendaci, perseguendo il fine di percepire indebitamente i contributi per l’editoria pur non disponendo dei requisiti costitutivi, di natura oggettiva e soggettiva, imposti dalla normativa di settore e la cui sussistenza era stata artatamente simulata.

Dalla complessa e articolata attività istruttoria è, invero emerso, che la società cooperativa perseguiva di fatto finalità di lucro e non mutualistiche e che la compagine sociale non fosse composta in assoluta prevalenza da giornalisti propri dipendenti.

Ancora, alcuni dei giornalisti associati non erano a conoscenza dello loro “status”, mentre altri sarebbero stati indotti a partecipare alla compagine sociale quale condizione per lavorare. Tutti gli associati, inoltre, non avrebbero mai versato la quota di partecipazione, né avrebbero attivamente partecipato alle attività degli organi sociali.