Un secolo e dieci anni: molto più di una vita. Nel calcio il Savoia - nascita datata 21 novembre 1908, quando l’Italia non era ancora cinquantenne - ha realizzato l’esempio di un’esistenza collettiva che ha coinvolto (e tuttora coinvolge) una delle comunità più passionali e insieme più contraddittorie del Paese. Un fenomeno nato in provincia, mentre Napoli, la quasi metropoli, arrancava, divisa tra troppe squadre senza che nessuna monopolizzasse l’attenzione popolare. Pochi chilometri più a sud, invece, il pallone (almeno quello) girava benissimo: succedeva a Torre Annunziata, allora capitale della pasta e ora tenace custode dell’ultimo pastificio sopravvissuto; allora teatro di imponenti manifestazioni in difesa di un lavoro sempre precario e ora rassegnata spettatrice di un’emigrazione senza fine. Torre Annunziata e il Savoia hanno attraversato la storia vivendo spesso realtà opposte: quando il calcio vinceva, alla città toccava arretrare, senza che fosse possibile trovare una linea logica che aiutasse a spiegare che cosa stesse accadendo.

Un mistero cominciato con la scelta del nome: Savoia, come la dinastia che aveva fatto dell’Italia una nazione. Ma la radice monarchica forse fu solo casuale, come la coincidenza che i primi a giocare erano stati militari del battaglione intitolato alla Casa regnante. Tutto il resto apparteneva al popolo: la sala del regno era allo stadio, definizione decisamente eufemistica per il campo Oncino, ospitato sulla punta più panoramica affacciata sul nostro golfo. Il luogo incantato dove il sogno si materializzò.

Infinita stagione 1923-24: la serie A, in quei tempi eroici, era un patchwork di gironi che divideva il territorio italiano in tanti campionati regionali. Atto conclusivo di questa estenuante maratona la finale Genoa-Savoia; otto scudetti contro zero, l’intera nazionale vestita in maglia rossoblù contro campioni molto più ruspanti. Come se la Juventus oggi sfidasse il Sassuolo per contendersi il titolo. Da una parte De Vecchi: il più famoso di tutti, il capitano azzurro, il primo divo, e poi De Prà, Santamaria, Catto, Sardi; dall’altra Visciano, Ghisi, Bobbio, Mombelli e Maltagliati: nomi che oltre il Garigliano valevano anche di più. Non era ancora il tempo dalla Giraud family, la straordinaria collezione di fratelli d’arte, il cui ricordo vive attraverso la denominazione dello stadio di oggi. Finì in festa anche la partita di ritorno, a Torre il 7 settembre: 1-1, il suggello alla vittoria genoana dopo il 3-1 in Liguria. Non c’era il Var e il cittì del momento, Rangone, era l’arbitro. Dettagli di un mondo che sembrava fatato: i giocatori dell’Ital-Genoa furono portati al campo in carrozzella, la loro presenza evocava il mito, senza che nessuno li avesse mai visti prima.

Era la fine di una saga, ma chi avrebbe potuto prevederlo? Il Genoa si fermò a quota nove, non avrebbe più vinto uno scudetto, il Savoia raggiunse il massimo conquistando per due volte la serie B: la prima nel dopoguerra (1946), la seconda proprio un attimo prima che finisse il secondo millennio. Due momenti di gloria divisi da cinquantatré anni, ma appartenenti a ere geologiche diversissime. In mezzo un calcio che oggi appare lontanissimo, la serie C che aveva lo stesso fascino della Coppacampioni, i duelli con i dirimpettai della Turris procuravano brividi indimenticabili, la trasferta in casa della Juve Stabila era un appuntamento irrinunciabile. Il ricordo oggi rende le rovesciate di Villa (un centravanti cresciuto nella Juve) belle come quella di Ronaldo. E non si giocava certo sull’erba. Le parate di Boesso, campionato di serie D vinto in pieni anni Sessanta, sono raccontate dai reduci come prodezze ineguagliabili oggi da Donnarumma.

Vincere è sempre stato difficile, da qualche decennio lo è di più. In piena ricostruzione poteva anche bastare il talento autarchico di Ercole Castaldo, per tutti Ercolino, che avrebbe meritato ben più di una sola presenza in Nazionale B. Riferiamo il giudizio dei giornalisti che vissero quell’epoca: se Castaldo avesse giocato in una grande squadra, avrebbe vissuto un’altra carriera. Per lui il Savoia era una fede, non solo una squadra. Ed Ercolino fu una bandiera alla Totti, se mai possono avere un senso paragoni come questo. Fu meno utile avere in formazione un cannoniere come Ghirardello in quell’anno disgraziato della serie B di fine millennio. Tutto finì con un suo errore nel derby impossibile, la partita con il Napoli in disfacimento. Quella sfida non fu mai giocata al Giraud, ma ad Avellino. Ghirardello forse lì non avrebbe sbagliato. Ma non era più il tempo delle favole, quella promozione costò carissimo, avviò una serie di fallimenti che nella storia savoiarda non era mai stata registrata. Eppure, nonostante tutto, loro, i tifosi del Savoia, non hanno mai disertato. Le rifondazioni hanno prodotto gioie che hanno sempre esaltato. Certe notti, come quelle vissute per una Coppa Italia dilettanti, si conservano nella memoria come pepite del ricordo. L’importante è averle vissute. Così, a 110 anni dalla fondazione, pure la serie D profuma di gloria. Lunga vita al Savoia.

*già managing director di SkySport

articolo tratto da Il Mattino del 21 novembre 2018

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