Non esiste in natura nulla di più intimo degli occhi. Denunciano sentimenti e stati d'animo, manifestano paure e imbarazzi, non riescono a nascondere grandi bugie e piccoli falsi. Da quando ha cominciato a formarsi dentro di me questo convincimento, non riesco a costruire un'opinione di una persona se prima non ho incrociato il suo sguardo. È un metodo che ha sempre funzionato: ho ingaggiato decine di collaboratori fidandomi della prima sensazione empatica. È ciò che mi è sempre mancato di Giovanni Russo, il Presidente della squadra più forte che, spendendo il nome Savoia e indossando la maglia bianca, si sia mai vista in un campo di calcio.

 È accaduto durante i capannelli che si formavano spontanei nel piazzale dello stadio dopo le partite o anche al termine degli allenamenti infrasettimanali: io c'ero quasi sempre, eppure mai che mi sia capitato di cogliere un'espressione. Difficile, praticamente impossibile capire che aria tirasse. Meglio affidarsi alle parole di Zanotti, il signore bergamasco che tutti chiamavano mister, anche quelli che faticavano molto a cimentarsi con la lingua italiana. Tra il professore e il resto del mondo c'era sempre una barriera, quelle lenti, così scure da annullare anche le ombre, impedivano che potessero trasparire perfino le più insignificanti incertezze. 

C'era poi il fratello Peppe a completare la schermatura. Insieme formavano un tutt’uno: li chiamavano i due presidenti, in un periodo in cui erano davvero tempi duri a Torre per i padroni del pallone. Un'ingrata contestazione aveva appena decretato la fine della troppo breve era Faraone Mennella, una famiglia di galantuomini che avrebbe meritato un’uscita molto meno ingrata di una pioggia di monetine. Subito dopo, Giovanni Russo fu il più giovane presidente della storia savoiarda, subito atteso da una ricostruzione complicatissima seguita a un’ascesa esaltante e a una caduta precipitosa. Sostituire nella fantasia popolare miti giganteschi come Roberto Padovani o il biondo capitano Bertossi era quasi impossibile. L’uomo senza occhi ci vide benissimo; individuò la stella, anzi la superstar: Lino Villa, il centravanti più forte passato per Torre Annunziata, più di Ghirardello, l’uomo della B. Era più bravo anche di suo fratello Silvano, esploso nel Milan proprio mentre Lino era tra noi, prigioniero del suo passato, perseguitato dai segni degli infortuni patiti durante il suo soggiorno juventino, tormentato dall’eterna richiesta: come era finito all’inferno lui che con i piedi dispensava pennellate paradisiache? Non arrivò mai la risposta, un mistero che la ragione non avrebbe potuto spiegare. Sarebbe stato bello sapere, sicuramente utile. In fondo era l’inizio della storia, una favola durata solo due stagioni, ma che a tutti noi, testimoni di quei giorni, parve infinita.

 L’estate del 1970 fu indimenticabile, dalla delusione per un secondo posto alle spalle della Turris alla gioia incontenibile per la notizia che nessuno osava prevedere. La classifica ridisegnata per sentenza, un campionato vinto quando i giochi sembravano già chiusi. L’allenatore Zanotti con l’ultima vittoria c’entrava poco e pure Peressin, l’alternativa al Fenomeno Villa. Il gol decisivo lo segnò un avvocato, Carlo Masera, che sostenne la tesi del Savoia: la Turris non si liberò dall’accusa di aver tentato un illecito e fu tutto azzerato. La notizia della promozione in serie C arrivò via telefono con le parole di Roberto Gamucci, un giornalista fiorentino del Corriere dello Sport. Non c’erano le pay tv, la gente stava ad aspettare vicino al posto di telefono pubblico. Anche quella scelta, del bomber Masera, era passata attraverso Il Presidente Russo. La prossima estate saranno cinquant’anni da quella impresa, mai sufficientemente magnificata. Sarebbe stato il momento giusto per parlare, per raccontare una verità oggi dimenticata. Invece è sceso il silenzio, quegli occhi spesso nascosti si sono chiusi per sempre. Presidente, potremmo farcela ancora. Vincere è sempre il modo migliore per onorare una grande vittoria.