È stato atteso, sudato, sospirato, accarezzato, ma mancava sempre l’ultimo metro per tagliare il traguardo, quel metro, quella linea sottile che divide inferno e paradiso, quel sentimento di estasi pura. Ecco perché il gol di Osimhen ad Udine, il 4 maggio scorso, è suonato come una sorta di liberazione da un qualcosa che pensavi potesse addirittura non arrivare più, come i sogni che si infrangono sul più bello.

Ecco perché questo scudetto per il Napoli e per l'intera città ha un sapore speciale: perché arriva dopo trentatrè anni di attesa spasmodica, anni nei quali a Napoli esisteva un unico grande leader incontrastato: Diego Armando Maradona. Lui era il centro di gravità delle speranze di un popolo, una sorta di divinità. Quanto è cambiato da quel lontanissimo 1990 (anno dell'ultimo tricolore). Oggi c'è una squadra che somiglia tantissimo ad un’orchestra nella quale nessuno stecca una nota e sono tutti, nessuno escluso, attori protagonisti del medesimo sogno, guidati da un grandissimo condottiero, quel Luciano Spalletti a cui va ascritto un duplice merito: quello di aver compattato la squadra portandola ad un successo sul quale ad inizio stagione calcistica nessuno avrebbe scommesso neppure un centesimo, e quello di aver creato una koinè, un afflato emotivo con la città intera.

Ecco perché di questo scudetto ci sentiamo tutti un po' figli, perché è il vessillo del riscatto popolare di intere generazioni, di quartieri, di tutte le volte (troppe) in cui Napoli è stata etichettata come la città della camorra e del malaffare. Questo è lo scudetto di tutti ed è tutto nostro! Oggi Napule è ancor di più mille culure ed oggi quel giorno all'improvviso in cui m’innamorai di te si è finalmente compiuto.