A cura della Redazione
Ho insegnato per oltre quindici anni in due scuole medie di “frontiera” a Torre Annunziata, la «Manzoni» e la «Parini», in quartieri cosiddetti a rischio come la Provolera e quello Murattiano. Ho avuto modo di avere come studenti diverse centinaia di ragazzi, tantissimi dei quali vivevano situazioni di grande disagio familiare, sociale ed economico. Con genitori disoccupati, tossicodipendenti, in carcere o violenti. Tutte queste drammatiche realtà, purtroppo, influivano negativamente su di loro e proprio in una fase delicata della vita, quella dell’adolescenza. A scuola, quindi, si mostravano spesso distratti, svagati, aggressivi o, al contrario, chiusi in se stessi. E spesso il lavoro di docente era l’ultimo che molti di noi insegnanti dovevamo fare, preceduto da altri più «necessari» come quelli di psicologo, assistente sociale o semplicemente di amico più grande che ne potesse comprendere i problemi e cercare di aiutarli per quanto possibile. Ma la realtà che circondava questi ragazzi era terribile. Molti abitavano in case fatiscenti e in vicoli dove spesso non arrivava neanche la luce del sole. La maggior parte del loro tempo la trascorrevano in strada, con tutti i pericoli che c’erano, o rinchiusi in appartamenti piccoli e, per di più, in condizioni di sovraffollamento, visto che appartenevano a famiglie numerose. Gli unici punti di riferimento, in mancanza di strutture sportive e ricreative, erano la scuola e la parrocchia. Ma la dispersione scolastica era altissima e solo in pochi frequentavano la chiesa. Senza considerare che la loro vita, a causa delle disagiate condizioni economiche, era fatta, spesso, di rinunce ai desideri più innocenti, un paio di jeans e di scarpe alla moda, una gita o un cinema, che un adolescente può avere. Oppure di percosse, perché genitori ignoranti o frustrati nelle loro aspettative di lavoro e benessere, scaricavano sui figli le loro insoddisfazioni. Molti di quei ragazzi, perciò, erano affascinati dalla figura dei «guappi di quartiere», camorristi che vivevano nella loro stessa realtà ma che viaggiavano a bordo di auto e moto di grossa cilindrata, ed avevano le tasche imbottite di soldi quando li tiravano fuori per fare i loro acquisti. Perciò, tali personaggi negativi esercitavano un’attrazione irresistibile ed imitarli, seguendone l’esempio, era per questi ragazzi l’unico modo per affermarsi nella società locale e per sfuggire ad un grigio presente e ad un avvenire incerto. E così venivano coinvolti, lentamente ma inevitabilmente, nel mondo della criminalità, in attività illecite come lo spaccio di droga, il racket o gli scontri sanguinosi con i clan rivali. Avvolti inesorabilmente in una spirale di violenza ma anche di paura, preoccupati di finire in un agguato o nella rete della giustizia. Certo, non tutti hanno scelto questa strada. Anzi, in molti, quando li ho rivisti dopo qualche decennio, sono diventati validi professionisti, impiegati, operai o addirittura si sono arruolati nelle Forze Armate e dell’Ordine. Ma proprio loro, e purtroppo le cronache dei giornali, mi hanno raccontato invece il tragico destino di tanti compagni di classe che sono (o sono stati) in carcere, che sono diventati delinquenti incalliti o perfino dei boss. E, sfortunatamente, qualcuno di loro ha anche perso la vita. Ma noi, come società, cosa abbiamo fatto per questi ragazzi «perduti»? Poco o niente. Ricordo che una ventina di anni fa il motto del Partito Laburista inglese era: «Duri con il crimine, ma anche duri con le ragioni del crimine». Nel senso che è importante ed indispensabile la repressione. Tuttavia, da sola non è sufficiente a combattere la criminalità senza la prevenzione ed il recupero di chi delinque. Il lavoro della magistratura e delle Forze dell’Ordine, carabinieri, polizia e guardia di finanza, è stato straordinario, soprattutto negli ultimi anni, a Torre Annunziata. E i risultati si sono rivelati eccezionali, perché sono stati falcidiati i gruppi camorristici della nostra città, con centinaia di arresti e condanne. Ma a questo impegno inarrestabile, faticoso e rischioso, non è stato affiancato un analogo attivismo delle istituzioni nel cercare di combattere le cause che sono all’origine del fenomeno criminalità, al fine di prevenirlo. Cosa è stato fatto per risanare, dal punto di vista urbanistico ed ambientale, quartieri fatiscenti come il rione Carceri, la Provolera e il Murattiano? Perché non si è intervenuti in queste realtà degradate e disgregate con assistenti sociali, «maestri di strada», doposcuola, insegnati di educazione fisica che avrebbero potuto avviare questi ragazzi alla pratica di uno sport? Perché non si è migliorato l’arredo urbano, il verde pubblico, la raccolta dei rifiuti per rendere quelle zone più vivibili? Perché non sono state stabilite convenzioni con artigiani del luogo affinché nelle loro botteghe potessero far lavorare giovani che avevano interrotto gli studi, minori a rischio e perfino coloro che, usciti dal carcere, erano desiderosi di cambiare vita ed imparare un mestiere? Per estirpare definitivamente le erbe cattive bisogna prendersi cura del terreno sul quale crescono. Non basta solo arrestare, processare, condannare capi e gregari perché i clan camorristici scompaiano. Lo dimostra il fatto che mogli, figli, nipoti, parenti e giovanissimi che cercano di emergere e farsi spazio nel mondo della criminalità, li sostituiscono prontamente. Occorre recuperare quelli che, terminata la pena, cercano un’alternativa alla strada della delinquenza, altrimenti ritorneranno a spacciare, rapinare, estorcere. Anche se in parte questo tentativo si rivelerà vano, perché ci sarà sempre chi ricercherà nell’attività illecita la sua lucrosa fonte di reddito. Ma comunque non bisogna offrire loro il facile alibi «che nessuno ha cercato di dare una mano per reinserirli nella vita sociale e lavorativa». Un ruolo estremamente importante in questa grande operazione di recupero e prevenzione del crimine lo devono esercitare i nostri amministratori, tutti gli assessori e, in primis, quello alle Politiche Sociali. Una decina di anni fa, l’assessore che si occupava di questo settore, Piepaolo Telese, offrì l’iscrizione gratuita a società sportive ai minori a rischio ed a ragazzi disagiati ed indigenti. Era un inizio positivo, poi interrotto. Perché non riprenderlo, ampliarlo ed integrarlo con altri interventi in diversi campi per fare prevenzione e recupero nelle realtà cittadine degradate? Rivolgo questo appello al sindaco Starita e all’assessore Alfieri, affinché imprimano una simile svolta al governo della città. SALVATORE CARDONE