A cura della Redazione
Sequestrata un’area privata adibita a parcheggio lungo la litoranea Marconi, in quanto sottoposta a vincolo archeologico. Si tratta dell’Oplonti Parking. I vigili urbani di Torre Annunziata, al comando del ten. Antonio Virno, coadiuvati dai carabinieri della locale Stazione, diretta dal luogotenente Egidio Valcaccia, hanno posto i sigilli alla struttura in forza di un provvedimento della Procura del Tribunale oplontino. Nulla di nuovo. La cosa che più sconcerta è che la stessa area, utilizzata come rimessa di vetture da oltre un decennio, e sul cui perimetro è ben in vista un opus reticulatum di epoca romana, è soggetta a vincolo archeologico da circa cinquant’anni. Triste è la storia che promana dall’esistenza di quelle mura. Prima di questo ultimo sopruso a danno dell’archeologia locale, ebbe inizio nel 1964 in conseguenza dei lavori di sbancamento della falesia vulcanica per fare spazio ad una serie di “palazzacci” progettati dalla Cooperativa “La Perla”. Il tutto avvenne in una sola notte. L’archeologia vesuviana veniva stuprata in un modo violento, insensato e senza alcuna remora da parte degli artefici di quello scempio che di fatto ci negarono, già all’epoca, una prima possibilità di una rinascita culturale. Era il 6 maggio del 1964 quando il ragioniere Franz Formisano, membro del famigerato comitato Pro Oplonti guidato dall’imperterrito Mons. Salvatore Farro, il “prete archeologo” della Parrocchia della Santissima Trinità di Torre Annunziata, lanciò l’allarme su quanto stava accadendo presso la litoranea Marconi. Troppo tardi. Le urla di quegli uomini che si levarono per la risurrezione di Oplonti, ancora una volta, non vennero ascoltate. Per il vile danaro, la speculazione edilizia in atto in quegli anni bui ebbe la meglio sul patrimonio paesaggistico. Le ruspe in una sola notte distrussero un intero edificio residenziale del I secolo a. C.. Erano le persistenze delle Terme appartenute un tempo a Marcus Crassius Frugi, “magnate delle acque” dell’epoca romana conosciuto da Pompei a Baia. I camion, caricati di fretta e furia di detriti vulcanici mischiati con reperti romani di assoluto valore storico e artistico rinvenuti nell’area, vennero scaricati lì dove si stava costruendo il nuovo molo di Levante di Torre Annunziata. In pratica il tutto venne usato come materiale di risulta per riempire i plinti sul quale poi doveva sorgere il nuovo scalo marittimo e commerciale torrese. Accorsi sul posto, i fiduciari della Soprintendenza di Napoli, tra cui l’esimio prof. Carlo Giordano, accompagnati dal prof. Carlo Malandrino e dal ragioniere Franz Formisano, non poterono fare altro che constatare quanto era ormai accaduto. I giornali di tutta Italia gridarono allo scandalo. I titoloni di prima pagina, riferiti a quell’episodio di quella sciagurata notte, denunciavano: “Distrutta una villa romana a Torre Annunziata!”. Cercando tra i depositi della Cooperativa La Perla, lo stesso Formisano, che non si fermò dinanzi a nulla, recuperò una moltitudine di reperti ritrovati e poi accantonati in un garage. Ciò che venne salvato, pochissime testimonianze ahinoi, fu poi trasferito nei depositi della Soprintendenza in attesa di una sistemazione migliore in quanto l’Amministrazione comunale dell’epoca non fornì alcuna risposta circa un sito che potesse accogliere sul territorio di Torre Annunziata quell’enorme tesoro storico. La problematica della musealizzazione già emerse drammaticamente in quegli anni, quando ancora si era alle prime picconate che poi esumarono il sito archeologico della Villa “A”. Successivamente, appurate le varie responsabilità da parte della locale compagnia dei Carabinieri, il 2 febbraio 1965 venne avanzata la proposta alla Soprintendenza di vincolare l’area. Dopo poco, la proposta venne accettata e ciò che rimase di quello sbancamento sciagurato resta ancora oggi come una tremenda ferita, aperta e sanguinante, inflitta al patrimonio artistico e culturale di Torre Annunziata. VINCENZO MARASCO