A cura della Redazione

Ci sono dolori che ti riassegnano al tempo che è stato ma non è mai passato. E te lo fanno sentire come presente. E ti fanno scoprire l’unico – giustificabile, necessario – senso del dolore: illuminare quanto di vero e puro possa racchiudere l’esistenza di un uomo. Qualunque.

Erano decenni che non sapevo molto di lui. Anzi niente. Improvvisamente sono ripiombato nei nostri, comuni, undici anni, quando eravamo nello stesso banco. Uno di quelli neri, con la ribalta e il foro per l’inchiostro che già allora non c’era più. A ripensarci riecheggiano dei suoni che sono dei cognomi di ragazzi divenuti uomini. Di molti non so niente. Con altri, pochi, pochissimi, due o tre, non di più, ancora mi vedo. E quando ci incontriamo anche senza dircelo, è come se ci abbracciassimo. Col pudore che hanno gli uomini, quando, sempre, si vergognano del sentimento.

Non è stato così con te, Gecchi. Non so neanche come si scriva, tale era ed è la familiarità col nome. Non conosco niente della tua storia. Della tua vita. Dei tuoi figli, se ne hai. Ricordo tuo padre e tua madre, scura come pochi e di un paese da un suono strano che da lei sentii per la prima volta.

Ricordo le tue sorelle e il libro di geografia. Adesso, alla memoria ne sento al tatto la copertina. Ricordo le cassette di insetti e farfalle che una nostra insegnante di scienze, un’altra delicata presenza del nostro mondo comune, ci chiedeva di fare ignorando, o fingendo di ignorare, cosa sarebbero diventate per noi.

E’ il sontuoso destino degli insegnanti che restano nel cuore dei loro allievi. Sei entrato nella mia storia. Nella mia vita. Eri un ricordo che il dolore di un evento ha ridestato. Un evento che a leggerlo, a raccontarcelo, a undici anni, ne avremmo sorriso. E non ne uscirai. Nemmeno quando sarò io a venire da te. Tu già lo fai, da questa sera. Ed è un conforto. Un dolore e un conforto.