A cura della Redazione

Continua il nostro appuntamento con Felice Cacace, avvocato novantenne e narrattore di piccole storie. Oggi ve ne proponiamo tre, tutte ambientate intorno alla metà del secolo scorso.

Quando la necessità aguzza l'ingegno: la storia di Giannino... 

Spesso, in questo periodo così disastroso, s’invocano, a sostegno delle speranze di una rapida rinacita, quelle qualità d’inventiva, capacità di arrangiarsi e tenacia, proprie degli italiani, che, negli anni ‘40 e ‘50  seppero trarre la nazione fuori dalla crisi.

Ancora una volta le piccole storie personali possono darci buone speranze.

Per un lunghissimo periodo dell’anno 1943, a causa dei gravi danni subiti dall’acquedotto del Sarno, la città rimase priva di fornitura idrica. C’era una sola fontanina pubblica, sempre attiva per via Vesuvio, in prossimità del passaggio a livello della Circumvesuvesuviana, che era alimentata dall’acquedotto del Serino (praticamente l’antico acquedotto romano che alimentava anche Pompei). Ovviamente, per approvvigionarsi, si creava una ressa.

Giannino ragazzo quattordicenne, mio ex compagno di scuola elementare, poverissimo, andò casa per casa proponendosi come portatore d’acqua e si formò una clientela: pasava prima a raccogliere i recipienti vuoti, poi li riempiva e li riportava pieni. Così per l’intera giornata, ricevendo in cambio qualche moneta, o generi alimentari, o capi di vestiario.

Lavorò parecchi mesi, fin quando uno dei suoi clienti, farmacista, avendone apprezzato la serietà, l’impegno e l’educazione, lo assunse come garzone nella farmacia. In seguito trovè lavoro in uno stabilimento locale.

... Fornacelle fai da te

Fin dal periodo anteguerra unico conbusibile per uso domestico era il carbone di legna. Ogni famiglia aveva in casa delle fornacelle in miniatura, e quelle più povere addirittura delle fornacelle. Rudimentali mobili, fatti di lamiere di ferro o di latta, pochissime quelle che utilizzavano il gas.

Negli ultimi mesi del 1943, ed in quelli immediatamente successivi, venne a mancare anche il carbone e quando se ne trovava un poco, il prezzo era altissimo.

Si videro allora in giro le fornacelle a segatura. Erano quelle scatole di latta di forma cilindrica, priva del coperchio superiore. Al centro si introduceva una bottiglia, o un qualsiasi altro oggetto cilindrico, e tutt’intorno a questo segatura di legno comprimendola al massimo.

Dopo questa operazione, si estraeva la bottiglia, lasciando un buco al centro. In prossimità della base dello scatolone si praticava un buco del diametro di pochi centimetri, facendo in modo da lasciare, fra la segatura compressa, un piccolo vuoto orizzontale, comunicante con il vuoto centrale.

Nel foro più piccolo si introduceva della carta accesa, provocando in tal modo l’accensione della segatura che, compressa com’era, bruciava lentamente, producendo quel tanto di calore che bastava probabilmente per un pentolino o una padella o anche recipienti più grandi.

... Il mulinello azionato a mano

Un geniale meccanico costruì un mulinello azionato a mano, che riusciva a macinare circa un chilo di cereali in una decina di minuti. Lo regalò a una famiglia povera la quale lo adoperò macinando granturco per conto terzi (in un periodo in cui non c’era grano né farina e ci si arrangiava col granturco coltivato nelle campagne circostanti). Al “mugnaio” spettava un decimo del peso macinato. Il quantitativo così ricavato veniva in parte consumato come cibo e in parte barattato con altri beni (del fenomeno “baratto” avrò modo di parlarne in altra circostanza).

Lo stesso geniale meccanico costruì una pressa per produrre maccheroni. Commissionò ad una speciale officina la costruzione di due trafile per produrre spaghetti e ziti. Le trafile sono degli oggetti circolari o di forma rettangolare, di spessore 3-4 cm e di bronzo, munite di buchi sagomati attraverso i quali viene compresso l’impasto che così riceve la forma voluta (sarebbe opportuno che i giovani visitassero un pastificio per rendersi conto di come viene prodotto quello che certamente rappresenta il loro alimento principale). Data la presenza di un vecchio operaio pastaio in famiglia, s’impastava e si lavorava a lungo la semola, il cui impasto poi veniva introdotto nel tubo di acciaio nel quale veniva pressato a mò di torchio, dando luogo così alla fuoriuscita dei maccheroni. Questi poi venivano posti ad asciugare su canne per un periodo oscillante fra le 12 e le 24 ore. La famiglia produttrice poi barattava i maccheroni con fagioli, olio, qualche pollo, ecc..

Era poco, erano servizi umili e faticosi, però servirono non solo alla sopravvivenza ma anche alla speranzalla ripresa.