A cura della Redazione

Continua il nostro appuntamento con Felice Cacace, avvocato novantenne e narrattore di piccole storie di Torre Annunziata. Oggi ve ne proponiamo una che lo vede protagonista quando aveva solo 13 anni

"Dopo diversi tentativi nei paesini dell’entroterra, a fine agosto del 1943 - racconta Cacace - mio padre trovò un appartamentino a Boscoreale, dove “sfollammo” (come si diceva allora), illudendoci di poter sfuggirer ai bombardamenti che cominciavano a toccare anche Torre Annunziata. 

Purtroppo, nella notte fra il 13 ed il 14 settembre caddero diverse bombe su Boscoreale, qualcuna a poche centinaia di metri dal posto dove stavamo, provocando anche diversi morti e feriti. Mio padre si rese conto che neanche lì eravamo al sicuro, per cui decise di ritornare a Torre. “Almeno lì ci sono i ricoveri…”, diceva.

Così andò alla ricerca di chi potesse trasportare le poche masserizie che avevamo con noi. Nel cortile sotto il nostro alloggio c’era un carrettiere  (“trainiero” si diceva allora) il quale aveva un carretto abbastanza grande ed un cavallo. Mio padre si rivolse a lui promettendogli una forte ricompensa ,ma il carrettiere rifiutò per paura. I suoi figli, uno di venti ed un altro di diciotto anni, forse attratti dalla ricompensa o per inconscienza giovanile, dissero al padre che sarebbero venuti loro. Caricammo sul carretto reti, materassi, comodino e cassa e ci accingemmo a partire, A quel punto i due giovani dissero a mio padre: “Noi vogliamo fare presto, quindi mandateci con noi il ragazzo perché scaricheremo tutto rapidamente davanti al portone e ce ne andremo, mentre lui rimarrà a guardia”.

Così salii sul carretto insieme a loro e ci avviammo. Il cavallo, frustato, procedeva speditamente. Come seppi dopo, mio padre ci seguì a piedi, mentre mia madre con i tre bambini, aiutata da un nostro prozio, seguiva sempre a piedi, diretta verso Torre. Giunti davanti al portone di casa, al corso Umberto I, palazzetto ora segnato col numero civico 75, dove abitavamo al II° piano) mentre ci accingevamo a scaricare si cominciò a sentire il rumore assordante di una formazione di fortezze volanti (erano così denominati degli aerei quadrimotori di grandi dimensioni, che portavano enormi carichi di bombe ed erano armati perfino con dei cannoncini).

Erano circa quaranta, e cominciarono a sganciare bombe a non molta distanza da Torre, cioè verso la zona di Trecase. Passata quell’ondata scaricammo rapidamente sul marcipiede le masserizie, aiutati anche da un giovane, conoscente dei due ragazzi, il quale, dopo l’armistizio, era scappato dalla Croazia e, nelle intenzioni, sarebbe andato sul carretto con loro a Boscoreale. Avevamo appena finito di scaricare tutto sul marciapiede, quando arrivò un’altra ondata di fortezze volanti. Ci rannicchiammo nel portoncino. Istintivamente, i due ragazzi proposero di chiudere i battenti, mettendoci dietro di essi, nell’ilusione che ciò sarebbe servito a proteggerci. Fortunatamente, in virtù degli ammaestramenti ricevuti a scuola, mi opposi energicamente. Infatti, se l’avessimo fatto, dato quello che poi successe, i pesanti battenti ci avrebbero schiacciato sulla scalinata che incominciava subito dopo. Così ci rannicchiammo, sedere per terra e testa fra le ginocchia, nello spazio dell’androncino, due da una parte e due dall’altra. Io capitai all’interno ed avevo accanto a me il più grande dei due giovani. Di fronte c’era l’altro carrettiere con il soldato loro amico, Avevamo appena preso posizione quando si scatenò l’inferno.

Rumori assordanti, scoppi, e fu notte: non si vedeva più neanche ad un metro di distanza. Seppi dopo che ciò era dovuto sia al fumo delle esplosioni, sia al polverone che risultava dal crollo dei palazzi colpiti. Terrorizzato, credendo che fosse stata colpita la nostra casa e che il palazzo potesse cadere da un momento all’atro, o anche per semplice incoscienza, mi alzai e tentai di uscire dal buio soffocante dirigendomi al centro dela strada e correndo all’impazzata verso piazza Cesàro. Inciampai in qualche cosa, cadi, mi si lacerò la camiciola che avevo addosso e mi graffiai il petto, che incominciò a sanguinare. Mi rialzai e continuai a correre e giunto all’altezza dela farmacia Lavarone, allora siituata più o meno di fronte a quella attuale che ora è Kyros, si diradava il nebbione e cominciai a rendermi conto di quello che era successo. Per dare un’idea di quello che avevo respirato, ricordo che, avendo incontrato in quel momento Antonio Caso, che aveva qualche anno più di me ed abitava al pian terreno del mio palazzo, piangendo disperato lo abbracciai e gli diedi un bacio, stampandogli sul collo un’impronta di fango. 

Mi chiese cosa fosse successo; gli dissi che forse era crollato il nostro palazzo. Poi, man mano che il polverone si diradava, cominciai a tornare sui miei passi. A pochi metri di distanza, in mezzo alla strada c’era una buca (probabilmente quella in cui ero caduto), causata dall’esplosione di una bomba.  I palazzi  sul lato destro della strada (particolarmente quelli oggi contraddistinti con i numrti 49 e 35),  erano  crivellati di schegge, che avevano lasciato nei muri buchi di ogni dimensione, in qualche punto passandoli addirittura da parte a parte. A poca distanza da quel muro, un cadavere, con un buco proprio in mezzo alla fronte, da cui usciva materia cerebrale. I palazzi, sul lato nord di Corso Umberto I, a partire dal cancello dell’allora Mulino Gentile (ora occupato da decine di fabbricati) fino a tutto lo spazio ora occupato dalla larghezza di via dei Mille e da parte del palazzo della B.N.L., erano crollati (sotto le macerie erano rimaste parecchie persone, credo otto o dieci). Mi resi conto che anche più sopra, due palazzi erano crollati, formando un unico ammasso di macerie che ostruivano completamente la strada. Palazzi poi ricostruiti ed ora contrassegnati coi numeri 159 e148.

Mentre stavo per raggiungere il mio portoncino, incrociai il carretto col quale ero venuto. Il cavallo, il più giovane dei due carettieri ed il soldato loro amico erano rimasti illesi. Ma l’altro giovane (quello che era stato rannicchiato accanto a me nel portoncino) giaceva sul carretto, con una gamba stroncata all’altezza del ginocchio. Seppi poi che avevano raggiunto l’ospedale, che distava un centinaio di metri, dove era stato evitato il dissanguamento, ma avevano dovuto amputargli la gamba al di sopra del ginocchio ed estrargli due schegge da un braccio. Mi fermai inebetito a guardare lo sfacelo che mi circondava. Le nostre masserizie erano coperte da polveri, pietre e calcinacci. Schegge avevano rotto una rete da letto ed altre erano entrate nei materassi. Il nostro palazzo e quelli circostanti erano ormai quasi completamente privi di infissi e di vetri. Corso Umberto, all’altezza di via dei Mille, era parzialmente invaso dalle macerie, ma più su, dove erano stati colpiti da un lato palazzo Montella e di fronte, Palazzo Fusco e quello successivo, che erano parzialemente crollati, la strada era completamente ostruita da un cumulo di macerie alto almeno quattro o cinque metri.

Mentre ero lì, fermo, paralizzato dalla paura - conclude il suo racconto Cacace -, vidi spuntare da lontano mio padre, il quale, girato l’angolo di piazza Cesàro e trovatosi innanzi a quello sfacelo che si stendeva a perdita d’occhio, si mise a correre con le braccia alzate e gridando: “figlio mio”. L’incontro fu toccante. Poi giunsero anche mia madre, il prozio ed i bambini".

(foto di repertorio)