A cura di Antonio Papa

Sono trascorsi 35 anni da quel 7 novembre 1986 quando Michele Lanese decise di premere il grilletto di quella maledetta pistola e mettere fine alla sua esistenza.

Scelse di morire così dopo essersi recato nel garage della sua abitazione, in via Gino Alfani 15, dove viveva assieme ai suoi genitori ed alla sorella Carla. Quella notte non era rientrato a casa. Il padre Raffaele e la mamma Michelina lo ritrovarono la mattina successiva, dopo una notte di ricerche.

Ma chi era Michele Lanese?

Ai giovani di oggi poco o nulla potrà dire il suo nome, anche perché sulla sua vicenda è sempre calato un velo di silenzio, di mistero. Quelli come lui, nativi  tra gli anni ’50 e ‘60 hanno lottato con tutte le loro forze e con ogni mezzo per ottenere dignità e lavoro in una società intenta a salvaguardare e dividersi poltrone e potere, in combutta con la camorra.

Erano gli anni in cui migliaia di disoccupati si erano riuniti in movimenti organizzati, alla disperata ricerca di una occasione di riscatto. Tanti giovani si avviarono sulla strada sbagliata, altri cercarono di fermarsi prima dell'irreparabile, aggrappandosi a quell'ancora di salvezza, rappresentata dal posto di lavoro ottenuto tramite la lotta. Quest’ultimi furono premiati.

Arrivò la legge 285, firmata da Tina Anselmi, per spezzare quel record negativo di disoccupazione giovanile e inserire nel meccanismo lavorativo migliaia di giovani, togliendoli dalle strade in cui già scorreva sangue di morti ammazzati.

Torre Annunziata venne molto avvantaggiata da questo provvedimento. Michele, poco più che ventenne, era uno dei capi del movimento. Iniziò a lavorare presso il comune di Torre Annunziata, assunto come impiegato dell'assessorato alla Cultura.

Il suo impegno, politico e sindacale, continuò in modo continuo ed incessante, nonostante il nuovo lavoro. Proprio in quel periodo ottenne una carica molto prestigiosa, diventando segretario della Cgil di Torre Annunziata.

Negli anni Ottanta a Torre Annunziata, più di altre zone limitrofe, imperversavano droga ed eroina in quantità enorme. Erano tanti, troppi, i giovani tossicodipendenti entrati e mai più usciti da quel tunnel mortale. Michele scelse di lottare con loro, era a fianco di questa gente, si sentiva parte di loro. Ma era una lotta impari, troppo potere e soldi sporchi circolavano nel nostro territorio.

Iniziarono anche le guerre di clan. La più clamorosa, agosto 1984, portò alla strage di Sant'Alessandro. Otto morti e una quindicina di feriti, la mattanza tra le strade cittadine. Torre Annunziata sulle prime pagine e sui servizi giornalistici di tutto il mondo. Per diversi giorni, mesi. Forse ancora oggi qualcuno si ricorda di Torre Annunziata per quella tragica giornata.

Assemblee e dibattiti per interrogarsi sul perché di quella strage si susseguirono in città. Durante una di queste assemblee, Michele chiese di parlare. E parlò. Denunciò le ingerenze della criminalità in seno all'apparato politico cittadino, le infiltrazioni camorristiche arrivate ad inquinare la Giunta comunale. Qualche giorno dopo, queste gravissime accuse vennero ripetute in una intervista al Tg1. Michele scoperchiò il vaso di Pandora, diventando per l'opinione pubblica "il sindacalista d'assalto".

Trascorse un anno in trincea, lottando anche contro le prime minacce camorristiche che gli arrivarono direttamente in prima persona. Poi, l'anno dopo, un’altra gravissima sfida camorristica, con l'omicidio di Giancarlo Siani, settembre 1985.

La morte dell'amico giornalista rese Michele ancora più agguerrito nei confronti della politica locale. In una infuocata conferenza stampa, Michele Lanese chiese l'arrivo della Commissione Antimafia per valutare l'operato della Giunta, innescando una fortissima polemica con l'allora sindaco, reo, secondo Michele , di non aver mai parlato di "omicidio di camorra". Il primo cittadino si difese, rispose che non poteva generalizzare e buttare fango sull'intera comunità.

Da lì in poi, per Michele iniziò una pausa di riflessione, dovuto anche ad un precario stato di salute.

In un altro servizio giornalistico del Tg1, a seguito dell'omicidio Siani, questa volta scappò davanti alla telecamera, accusando: "Ve lo avevo detto che sarebbe finita così!". Si rifugiò  nei suoi versi, espressi in poesie, che faceva leggere ai suoi amici più stretti. Tra queste poesie, una dal titolo: "Me ne andrò in autunno", un segnale di cupa premonizione. Era la poesia che venne stampata sui manifesti che fiancheggiarono quelli della sua morte. Era il saluto che voleva lasciare alla sua amata/odiata città. Molti giornali scrissero che quello di Michele fu un "omicidio di camorra".

Da allora, su Michele Lanese scese l'oblio. Era un personaggio "scomodo", raramente ho letto qualche articolo sulla sua figura e sulle sue lotte. Solo in pochi, nel corso di questi decenni, hanno avuto un ricordo, un pensiero, una frase per ricordare la sua esistenza. Michele avrebbe meritato maggiore e migliore considerazione.

Spesso, nella nostra città, queste persone sono le più vere, sincere e sensibili, e solo grazie al loro impegno, nel civile e nel sociale, si sono raggiunti risultati che hanno cambiato il destino di una intera generazione. Michele era una di queste persone.

Quest’anno Michele Lanese avrebbe compiuto 68 anni.