A cura della Redazione

In altri e normali tempi, il venerdì pomeriggio sarebbe stato il giorno della settimana in cui avrebbe ricevuto in studio i propri clienti. Quanto a me, avevo l’abitudine di non fissare in contemporanea alcun appuntamento, per lasciargli tutto lo spazio a disposizione allo scopo di ascoltarli e di rintanarmi nella mia stanza a leggere e a scrivere. Poi, chiusa la porta d’ingresso alle spalle dell’ultimo a cui dispensava assistenza legale, ci saremmo ritagliati ― sempre che non lo pressassero altre esigenze ― qualche minuto per parlare di noi: delle rispettive famiglie (aveva incoraggiato mio figlio Giuseppe ad accettare il suo lavoro in tribunale e parlava da innamorato dei suoi, Nunzia, a Londra già dagli anni universitari e Gianluca, rimasto con lui nel suo studio napoletano ancora prima di laurearsi), o della politica che faceva soffrire due uomini di sinistra come noi, ma che non gli aveva impedito di essere assessore tecnico nella propria città e non ostacola oggi me nell’offrire una mano ai nuovi dirigenti del PD napoletano,  essendo entrambi i recenti eletti a cariche monocratiche miei antichi laureati e quindi collaboratori di cattedra. Nemmeno però ci negavamo a qualche barzelletta, ai consigli reciproci di letteratura e di cinema, o ai giudizi sui ristoranti che scoprivamo in giro.

Non sarà mai abbastanza rimpianta una routine che quando c’è sembra ingannevolmente noiosa. Da due anni, dopo un infarto in studio nella stanza adiacente a quella in cui mi trovo adesso (io non c’ero, trovandomi alla Federico II a un convegno di cui non ricordo il tema, ma altri lo soccorsero), si erano sostituiti ad essa un calvario di sofferenze e ricoveri, un alternarsi di speranze e di delusioni: nelle fasi buone ancora parlavamo  ― ormai da remoto ― di libri e mi aveva detto di volere scrivere un racconto sulla propria esperienza nella sanità napoletana; in quelle cattive, il mio fiato sospeso e gli scongiuri che da scaramantico facevo, il suo affannoso e aiutato da macchinari.

Un uomo ironico, con un fondo di malinconia che nascondeva, ma che io sapevo scovargli in fondo al cuore ballerino: lo conoscevo come “il fratello piccolo” fin da quando mi ero fidanzato con quella che sarebbe diventata mia moglie. Un magnifico avvocato lavorista, come so per me stesso, per essere lui stato decisivo nel rintuzzare infondate pretese a mio assunto carico della Cassa forense e per avermi procurato una bella vittoria contro un altro ente (non avrei potuto difendermi da solo, né con uguale bravura: la difesa tecnica serve a raffreddare la passione eccessiva che un avvocato metterebbe altrimenti in una causa che lo riguardasse personalmente). Uno studioso aggiornatissimo sulla sua materia, ma capace di orientarsi e cogliere il punto anche in diritto costituzionale e amministrativo, ragionando sui principi, se appena imbeccato. Un compagno, di complicità esistenziale e di fede politica adulta, ossia senza troppe illusioni sul suo prossimo e sul vedere finalmente spuntare “il sol dell’avvenire”.

I funerali domani a Napoli alle 10, 30, nella Chiesa del Gesù Nuovo dell’omonima piazza e poi lunedì 24 aprile alle 16,30, nel Santuario della Madonna della Neve a Torre Annunziata, la benedizione delle ceneri, per gli amici e colleghi della città in cui era nato e che amava. Avrebbe certamente detto qualcosa di sarcastico e smitizzante, di fronte addirittura a una doppia cerimonia di congedo, ma poi si sarebbe fermato un attimo a pensare e avrebbe concluso ― ne sono sicuro ― che questi riti servono alla consolazione di chi resta, non a chi è finalmente libero dalle vane brame e dal molto dolore di questo mondo. Ciao, cognato e fratello mio.

SALVATORE PRISCO