A cura di Anna Casale

La Settimana Santa, per ogni cristiano, è legata agli ultimi giorni di vita di Gesù Cristo. Nella tradizione popolare la settimana è stata da sempre scandita da “appuntamenti” improrogabili.

Il Giovedì Santo era ed è, in forma più ridimensionata, il giorno de “O struscio”, visitare i sepolcri allestiti nelle parrocchie dalla propria città o paese. A Napoli, secondo antica usanza, nel tardo pomeriggio del Giovedì Santo si soleva fare il giro de “e sette chieselle”, cioè visitare le sette principali chiese della città, dislocate lungo Via Toledo fino a Piazza del Plebiscito. Il termine struscio indica il rumore provocato dal procedere lento delle persone, lo strusciare le suole delle scarpe lungo il manto stradale. L’uso del termine risale al Settecento: Ferdinando I di Borbone emanò un decreto in cui era vietata, durante il periodo pasquale, la circolazione di carrozze e cavalli, limitato poi alla sola Via Toledo, poiché in quei giorni era luogo massimo d’incontro della popolazione.

Quello del Giovedì Santo era anche il giorno dedicato alla preparazione di alcuni piatti tipici: il casatiello doce (dolce), quello‘nzogna e pepe (strutto e pepe) e la pastiera. Prima che gli elettrodomestici entrassero nelle cucine di tutti, vi era nelle case di alcuni il forno a legna ed il Giovedì era dedicato all’incontro delle massaie per infornare i manufatti e attorno ai forni, in attesa della cottura, si dava vita ad un momento solenne e sociale di aggregazione per incontrarsi e fare ‘o ‘nciucio, ossia scambiare due chiacchiere.

Il Venerdì Santo, giorno della morte di Gesù Cristo, i cattolici partecipano solennemente alla Via Crucis. Nel territorio campano sono tanti e vari i momenti di raccolta e svolgimento della processione. A Boscotrecase, fino agli anni settanta del Novecento, la Via Crucis si svolgeva in chiesa, poscia il Cristo morto veniva portato, lungo le strade cittadine, in spalla da dodici uomini, tutti in abito scuro elegante. Al corteo di fedeli e chierici prendeva parte la Confraternita del SS. Rosario nei suoi paramenti ufficiali. Momento “nevralgico” era l’incontro del Cristo con l’Addolorata, in cui le vocelle, monache domestiche, intonavano il miserere ed altri canti. Una polifonia che sottolineava il dramma dell’incontro tra Madre e Figlio. Il “movimento” si svolgeva su uno sfondo di silenzio e fiaccole che seguivano il percorso.

Alla questione religiosa si affiancavano la tradizione dello n’jignà e quella culinaria. Entrambe ancora presenti ai giorni nostri.

‘O n’jignà, indossare abiti nuovi. Era il modo popolare più esemplare per caratterizzare il giorno della Pasqua. Vestirsi a nuovo era, nella dimensione simbolica, indice di rinnovamento, di rinascita e per alcuni farsi vanto del proprio status sociale.

La tradizione culinaria prevede, per il pranzo pasquale, la presenza di piatti irrinunciabili: la fellata, termine derivante da fella, termine napoletano per indicare la parola fetta, un antipasto di affettati accompagnati da formaggi, uova e fave; il casatiello, pasta di pane a forma di ciambella, termine derivante dalla parola caso, che in napoletano vuol dire formaggio, ingrediente predominante nella torta rustica. Dulcis in fundo la pastiera. Leggendariamente questo dolce è legato alla sirena Partenope. Il popolo partenopeo, in ringraziamento al suo canto melodioso, le donarono: la farina, simbolo della campagna, la ricotta, tesoro dei pastori, le uova, simbolo del ciclo della vita, grano bollito nel latte, simbolo della natura, l’acqua di fiori d’arancio, per ricordare i profumi della terra, lo zucchero, simbolo del suo canto. Doni che Partenope consegnò agli dei, i quali unendo gli elementi, diedero vita alla pastiera napoletana.

Il prosieguo delle tradizioni è indice di un popolo, che oggi nonostante le sofferenze quotidiane, che vede uno stravolgimento totale del vivere quotidiano e delle festività, vive il momento isolato nelle proprie case ma unito nella tradizione stessa.

(Nella foto, lo struscio in via Toledo a Napoli nel secolo scorso)