A cura della Redazione

È l'election day, con seggi aperti dalle 7 alle 23. La data del 12 giugno è stata scelta soprattutto perché i seggi si allestiscono nelle scuole, ora chiuse. Per accedere alle urne e votare la mascherina resta "fortemente raccomandata".

Domenica 12 giugno - giorno unico - si vota per eleggere i sindaci e rinnovare le amministrazioni di 978 Comuni. E in contemporanea in tutta Italia, per i cinque referendum che hanno avuto il via libera dalla Corte costituzionale.

I referendum sulla giustizia sono tecnicamente molto complessi. Ecco un breve esame del loro contenuto e degli effetti che, per ciascuno, avrebbe la vittoria del “sì”.

Incandidabilità, decadenza e misure cautelari

I referendum del 12 giugno rischiano di essere ricordati come quelli passati più sotto silenzio degli ultimi anni. In ogni caso, è già una certezza che i cinque quesiti posti all’elettore siano tra quelli a più alta complessità tecnica che si ricordino.

Il primo quesito mira all’abrogazione completa del cosiddetto decreto Severino, che, in alcuni casi di condanna non più appellabile, prevede l’incandidabilità (la decadenza, se la condanna interviene durante la carica) per i parlamentari e per le cariche elettive regionali e locali. Si tratta di condanne gravi, per alcuni fatti di associazione per delinquere, o reati contro la pubblica amministrazione (per esempio, peculato, concussione, corruzione), o comunque per reati per cui la legge prevede pene particolarmente severe. La decadenza è automatica per le cariche regionali e locali, mentre per i membri del Parlamento – per vincolo costituzionale – è necessario un voto della Camera di appartenenza.

Per le cariche regionali e locali, peraltro, il decreto prevede una sospensione automatica dalla carica già in caso di condanna non definitiva, dunque ancora appellabile, almeno per i casi più gravi.

Qualora i “sì” dovessero abrogare il decreto del 2012, nei casi da esso disciplinato, per le cariche regionali e locali, resterebbe percorribile soltanto la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, disposta a discrezione dal giudice.

Misure cautelari per la reiterazione del reato

Il secondo quesito attiene, invece, alle misure cautelari che il giudice può adottare, prima ancora di approdare a un esito nell’accertamento giudiziario, se ricorrono gravi indizi di colpevolezza e se esiste il pericolo di un evento pregiudizievole nelle more dell’accertamento (cosiddetto periculum in mora). Si tratta di misure significative che possono arrivare anche a forme restrittive della libertà personale, come la custodia cautelare o gli arresti domiciliari. Il codice di procedura penale specifica che il periculum può consistere: nel rischio di inquinamento delle prove; nel rischio di fuga o concreto e attuale pericolo di fuga dell’imputato; e infine nel rischio di commissione di un nuovo reato della stessa specie. I promotori del referendum chiedono agli elettori di votare “sì” all’abrogazione di quest’ultima ipotesi.

Ne deriverebbe che le misure cautelari potrebbero dunque essere applicate soltanto in caso di rischio di prove inquinate o di fuga, e non più per il rischio di reiterazione del reato. Resterebbe comunque fatta salva l’applicabilità delle misure se c’è pericolo che l’imputato possa compiere reati particolarmente gravi, con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, o di criminalità organizzata.

Separazione delle carriere, valutazione ed elezione del Csm

Il terzo quesito riguarda forse la questione più nota e annosa, ovvero la cosiddetta separazione delle carriere.

Il disegno costituzionale concepisce la magistratura come un unico corpo, senza alcuna distinzione tra i suoi membri, se non quanto alle funzioni esercitate. E la principale distinzione funzionale è quella tra magistratura giudicante e pubblici ministeri (magistratura requirente). Con brutale semplificazione: i primi sono chiamati a risolvere le controversie e applicare il diritto; ai secondi è affidata la cura di un particolare interesse pubblico nel processo, che nel caso di vicende penali è sempre l’interesse all’accertamento della verità. Ne deriva che, nell’amministrazione della giustizia penale, il pubblico ministero svolga di fatto le funzioni di promozione dell’accusa, laddove ne individui i presupposti.

Coerentemente con questa idea della magistratura come corpo unico, giudici e pubblici ministeri hanno un’unica carriera, con la possibilità di esercitare indistintamente sia le funzioni giudicanti che requirenti, “passando” da una parte all’altra con (relativa) facilità. Qualora invece dovesse vincere il “sì” alla separazione delle carriere, all’immissione in ruolo, ai magistrati sarebbe richiesto di optare per l’una o l’altra funzione, senza possibilità di tornare indietro o di cambiare durante il corso del servizio.

Partecipazione dei rappresentanti dell’Avvocatura e dell’Università ai Consigli giudiziari

Il quarto quesito ha a che fare, invece, con i Consigli giudiziari che – composti da giudici, avvocati e docenti universitari – a livello territoriale, tra le altre cose, coadiuvano il Consiglio superiore nella valutazione della professionalità e della competenza dei magistrati. Principalmente per evitare corto-circuiti tra avvocati e giudici, che qui si ritroverebbero “a parti invertite”, dalla valutazione sono esclusi i rappresentanti dell’Avvocatura (e dell’università), mentre vi partecipano soltanto i membri “togati”. Esclusione che, secondo chi ha proposto il quesito, produrrebbe un effetto di autoreferenzialità nella valutazione, che verrebbe meno se al referendum dovessero vincere i “sì”.

Candidature per il Consiglio superiore della magistratura

L’ultimo quesito riguarda, infine, le modalità con cui si diventa membri del Consiglio superiore della magistratura, l’organo cui la Costituzione attribuisce le funzioni di governo dei giudici, quanto a passaggi di carriera e sanzioni disciplinari. Il Consiglio, presieduto di diritto dal Presidente della Repubblica, è composto per due terzi da giudici eletti dalla stessa magistratura, e per un terzo da professori e avvocati eletti dal Parlamento in seduta comune per mantenere un collegamento con la società civile. Attualmente, la normativa prevede che, perché siano minimamente rappresentative, le candidature per la quota “togata” debbano essere accompagnate da una lista tra 25 e 50 magistrati presentatori. Il sì all’abrogazione, invece, permetterebbe la presentazione di candidature “sciolte” da qualsiasi “apparentamento”, il che – nell’intento dei promotori – dovrebbe ridimensionare il ruolo delle correnti all’interno della magistratura.

Cinque quesiti per nulla facili, insomma. Inutile ripetere che ogni scelta è legittima, fosse anche quella dell’astensione, che si può dire corrisponda a un no rafforzato, volto a far fallire l’iniziativa referendaria, il cui risultato è valido solo se a votare si reca il 50 per cento più uno degli elettori. Purché sia una scelta pensata, pesata e deliberata.

(fonte lavoce.info)