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Chi muore giovane è caro agli dei”. Questa frase, così intensa nella sua estrema sintesi, l’ho sentita la prima volta da adolescente pronunciata dal mio docente di lettere Giuseppe, anzi, Peppino, Lombardo. Era riferita a Ettore l’eroe troiano sconfitto del cui corpo fa scempio Achille. Allora pensai alla gloria perenne alla quale veniva consegnato quel corpo martoriato divenendo un nome eterno capace di riscattare tutto: la morte, la caduta di Troia, il destino di migranti dei sopravvissuti con la loro eredità di dolore, e tale da prevalere sull’oblio al quale la storia consegna i vinti.
Del resto anche Achille, il carnefice vittorioso, che aveva ripreso per vendetta la lotta, per un capriccio puerile interrotta, muore giovane. Ma la sua era stata la deliberazione di un destino, la proclamazione di una volontà di eroismo. A lui, semidio e quindi mortale, era stata data l’opportunità di scelta tra una vita breve ma gloriosa e una lunga e anonima. E lui aveva scelto. Perciò era andato in guerra. E con la morte anche lui diventa un eroe eterno, consegnato alla memoria profonda e universale degli uomini.
Ecco questo pensavo nell’irresponsabile sicurezza di futuro, propria dell’adolescenza, della gioventù. E talmente irresponsabile da pensare di poterne fare scialo.
Allora non sapevo cosa significasse, quale valore avesse quella frase. Perché erano cari? Cos’era questo straordinario affetto? Un risarcimento al dolore dei sopravvissuti? Una garanzia di eterna purezza e bellezza per le vittime, un preservarli dalle corruzioni, dai compromessi, dalle tante inquiete angosce e mortificanti miserie che la vita riserva a ciascuno di noi? Si sa gli eroi son tutti giovani e belli. E cosa c’è di più bello dell’essere giovani? E allora può essere considerato un dono redere eterno un essere nella sua giovinezza, al riparo dalla consunzione, dalla logica della morte prolungata, ogni giorno differita.
Poi lessi di Achille incontrato da Ulisse. Nella sua discesa agli Inferi - per ottenere vaticini sulla sua sorte e informazioni sui suoi cari - lo trova in mezzo agli asfodeli pensieroso, come roso da un rancore. Tenta di adularlo, il callido Odisseo, dicendogli che la sua gloria è immortale e la sua fierezza ne fa un sovrano anche laggiù. L’Achille che risponde non è più l’eroe invitto e crudele sul campo di battaglia, ma un’ombra invecchiata nell’anima che non ha mai smesso di scontare la colpa di quella scelta. "Non cercare di consolarmi. Preferirei essere un servo nella casa di un miserabile, ma ancora vivo sulla terra, piuttosto che regnare sulle ombre” Ma questo Achille quasi nessuno lo ricorda. Appena qualche vecchio.
Chi muore giovane è caro agli dei. Ma noi dei non siamo. Soffriamo dell’eccedenza del sentimento, della misura mai colma della felicità. Noi dei non siamo e alla morte di un giovane non abbiamo risposte. Anche perché qualunque ne sia la causa – se ne trovano sempre - i giovani non ne possono essere responsabili. Non possono aver colpa della fretta di vivere l’intensità del momento e nemmeno del delirio di logica che all’evento si accompagna, allagandoci le coscienze
La morte di un giovane è un’infermità al cuore della vita; è lo sguardo spento su un orizzonte assente; il delirio di un silenzio che non basta a se stesso. É un’oscurità di sale e raucedine, di respiri opachi, di palpebre brucianti e rugose.
La morte di un giovane è un grumo irrisolto di destino, dolore e speranza. Sì, speranza. Speranza di chi sopravvive alle prime due condizioni. E con lui chi non c’è più, che pur si sente ancora accanto. E non con rassegnazione o rimpianto, ma nel pensiero, nella memoria, nel tempo. Tempo in attesa che diventi conforto. Come è accaduto e ancora accadrà. Anche se adesso non sembra possibile. Perché è l’attesa che delinea e accoglie la nostra fragilità, la più umana delle qualità che la divinità ha riservato agli esseri umani. Che ci fa sentire immensi nel mistero del dolore che fa compagnia.
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