E’ venuto a mancare Lucio Corelli, cognome all'anagrafe Furiati. Torrese, ultimo discendente di una famiglia che ha dedicato la propria esistenza al teatro dell’Opera dei Pupi, il prossimo 2 novembre avrebbe compiuto 86 anni. Fin dall’età di 6 anni Lucio Corelli fu introdotto dal padre Vincenzo come parlatore negli spettacoli itineranti. A lui il merito di aver fortemente creduto con spassionato impegno in un’arte espressiva antica e, soprattutto, al suo recupero storico.
Felicio Izzo, dirigente scolastico, lo ricorda così.
Si racconta che Molière realizzò il suo sogno di genio del teatro nella sua ultima rappresentazione: morire in scena così da consacrarsi artista totale, assoluto. Così che persino l’estremo momento dell’umana esistenza rimanesse legato alla sua arte che era lavoro ma anche missione, vocazione e vanità, creatività e fatica. Ma questo è solo il racconto. La realtà della vita vera, che spesso onora l’accaduto più di quanto non riesca alla più elogiativa delle aneddotiche, ci consegna la narrazione, anzi la testimonianza, di un malore sulla scena e dietro le quinte, mentre si provava, e proprio “Il malato immaginario”, con la morte sopraggiunta, quella sera stessa, a casa. Un segnale, come a riconciliare il destino dell’uomo e dell’artista, di Jean Baptiste Poquelin e di Molière. Così da realizzare il sogno dell’essere umano totale e assoluto, materia mortale retaggio della stirpe di Adamo, con le sue comuni debolezze, che ci fanno fratelli, ma anche con la scintilla divina dell’arte, l’unica che avvicina alla divinità
Così mi piace pensare sia accaduto per Lucio Furiati e Lucio Corelli. L’uomo e l’artista. Ma con una differenza. Lui, Lucio, la scena non l’ha mai abbandonata. Nemmeno nel delicato sfiorire del respiro, perché la sua scena coincideva con la sua casa, e abitata con gran parte dei suoi “familiari”, fatti della medesima sostanza dei sogni, in quello scrigno di fantasia e sudore che era il suo teatro in via Fortuna. Poteva chiamarsi diversamente la strada che lo ospitava?
Non parlo delle sue visite al de Chirico - in una presidenza che usava accogliere anche un altro grande vecchio, il direttore Pasquale D’Amelio - né dei nostri incontri (bastava camminare lungo il corso al mattino per incrociarlo). Voglio invece ricordare l’intensità di quei colloqui, sempre brevi, stringati con i tempi di chi ha imparato dalle tante promesse rimaste tali, dalle innumerevoli disillusioni patite, a prevedere la futilità delle parole eppure senza mai chiudersi nella solitudine della diffidenza, ma con uno spiraglio appena dischiuso alla possibilità che ancora ci potesse essere qualcuno con cui valesse la pena condividere un sogno, un racconto, un copione.
Voglio ricordare quando spiegava la difficoltà, rispetto ai pupi siciliani, che era tutt’uno con le maggiori possibilità di movimenti, di manovrare i suoi pupi, napoletani, - ma che per noi erano e sono solo di Corelli -, della cura nel sistemarsi sul ponte, dell’abilità nel maneggiare la croce di vita. La croce della vita, quell’incrocio di due listelli di legno che prende appunto il nome dalla sua forma e che consente, ai pupi, gesti impossibili per quelli siciliani
Ecco era la sua passione a conferire un’enfasi etica alle sue parole, un entusiasmo affettivo che te le faceva entrare dentro. Pensate, la croce della vita, Non ci può essere espressione più intensa a definire uno strumento capace di dare vita a ciò che un attimo prima è legno dipinto, stoffa colorata, latta luccicante, occhi vitrei. Tutto anima la croce della vita a dare suono, voce, memoria alle affezioni dell’anima che nella semplicità delle storie ripropongono le eterne e eternamente irrisolte contrapposizioni tra bene e male, odio e amore, amicizia e rancore, valore e miseria morale, eroismo e viltà. Ogni cosa anima la croce e con la fatica della mano che duole; quel dolce dolore della sofferenza che il simbolo cristiano ha elevato al rango di strumento di redenzione e di eterna salvezza.
In un soggiorno a Palermo, qualche decennio fa, ebbi modo di scambiare due parole con Mimmo Cuticchio, il più famoso e talentuoso puparo siciliano. Ebbene quando gli dissi che ero di Torre Annunziata, la identificò immediatamente come il paese di Lucio Corelli, celebrandone l’arte addirittura superiore al carattere di lava scolpita, disse con metafora che non ho dimenticato.
Lava, legno, stoffe, latta, fili sospesi. Tutte materie apparentemente inerti eppure capaci di commuovere, appassionare e riportare, noi tutti, all’infanzia del mondo quando le cose che destavano emozioni non scorrevano su uno schermo, ma si potevano toccare perché continuiamo a credere che i veri sentimenti, le memorie più vive siano scolpite nella lava come ebbe a dire il maestro puparo. E se la lava è quella vesuviana hanno persino dei grumi di luce, dei riflessi, come di polvere di diamanti. Carbonio puro che realizza il miracolo d riscaldare il cuore, grato dell’incanto che Lucio Corelli ha saputo trasmettere.
C’è un modo di dire, nella civiltà contadina, a definire quando viene a mancare uno dei grandi vecchi del villaggio: se n’è ghiuta n’ata pianta ‘a miez’â terra. Ma la pianta ha lasciato frutti e semi che i figli hanno già raccolti. E fatti propri. Un’eredità che, mi auguro, la sua comunità, la nostra città, anche nelle proprie forme istituzionali, saprà accogliere, conservare e onorare.
Come merita Lucio, il maestro puparo. Che ha deciso di andare via proprio il giorno della festa, quello degli spettacoli più veri e sentiti
Quanti guerrieri ti sono morti tra le mani, caro Lucio.
Quanto sangue di aria e sospiri hai fatto scorrere.
Quanto dolore finto di strepiti hai raccontato.
Il nostro, adesso, è sincero, maestro.
E il dolore, si sa, dura il tempo del dolore.
Genera memoria e conforto,
in ognuno secondo propria coscienza,
immersi nel tempo di cui siamo fatti.
E senza comprenderne la meraviglia
Che ti fu compagna e guida, maestro Lucio.
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