L’apertura di un grande centro commerciale è spesso accolta come un simbolo di modernità, lavoro e servizi. Ma troppo spesso, dopo l’entusiasmo dei primi mesi, resta un altro scenario: saracinesche abbassate, vie un tempo vive ora silenziose, negozi storici che diventano ricordi.
È la desertificazione commerciale, il male che affligge sempre più città italiane, svuotate da poli attrattivi nati in periferia e pensati per concentrare consumi, tempo libero e movida in un unico contenitore.
Il problema, però, non è il centro commerciale in sé. Il problema è l’assenza di una strategia capace di fare convivere modelli commerciali diversi, evitando che uno divori l’altro. Perché quando un mall apre, non è solo un concorrente: è un magnete che risucchia persone, abitudini, economie e persino la vita sociale.
Il centro storico, invece, è il cuore della città. E un cuore che smette di pulsare fa ammalare tutto il resto.
La responsabilità delle amministrazioni: governare il cambiamento, non subirlo
Negli ultimi anni molti Comuni hanno trattato i grandi centri commerciali come miniere d’oro: oneri urbanistici, occupazione temporanea, investimenti immediati. Ma la politica locale ha il dovere di guardare oltre l’immediato, ponendosi una domanda semplice: cosa resta alla città tra dieci anni?
Per evitare la desertificazione serve un progetto urbano serio, che metta al centro la qualità dello spazio pubblico, la vivibilità, la mobilità sostenibile, e soprattutto un sistema di incentivi che renda competitivo il commercio di prossimità. Non basta rifare una strada per dire che si è “riqualificato il centro”. Serve una visione.
E serve anche il coraggio di pretendere dai grandi investitori un impegno reale verso il territorio: contributi per opere pubbliche, partnership con i negozi cittadini, integrazione nei trasporti. Non si può più consentire che un enorme polo commerciale prosperi isolato, mentre la città intorno si svuota.
Il commercio di vicinato: un presidio sociale prima ancora che economico
Quando chiude un negozio non si perde solo un’attività commerciale: si perde un presidio sociale. Il negoziante conosce i residenti, sorveglia la strada, crea relazioni, dà lavoro. Sostituirlo con un anonimo megastore significa diminuire l’identità del territorio.
Il piccolo commercio non ha bisogno di protezioni nostalgiche, ma di politiche intelligenti: agevolazioni fiscali, affitti equi, incentivi alla digitalizzazione, marketplace locali, e soprattutto un progetto coordinato che trasformi il centro in un centro commerciale naturale, competitivo e moderno.
Le città europee che ce l’hanno fatta – da Lione a Barcellona – hanno capito che la sfida non è frenare la modernità, ma governarla.
Una città viva ha più voci, non una sola
Un grande centro commerciale può essere un’opportunità, non una condanna. Può integrarsi nel tessuto urbano, creare connessioni anziché isolamento, diventare parte di un ecosistema che valorizza sia le grandi catene sia le botteghe artigiane. Ma tutto questo succede solo quando una città sa chi vuole essere, e non lascia che siano le logiche del mercato a deciderlo al posto suo.
La vera sconfitta non sta nell’apertura di un mall, ma nella chiusura di un centro storico. E una città che rinuncia al suo cuore perde molto più che negozi: perde identità, sicurezza, memoria e comunità.
Per questo ogni amministrazione ha oggi una responsabilità chiara: fare in modo che, quando un centro commerciale spalanca le sue vetrine, non si spengano le luci delle strade in cui vive la città. Solo così potremo dire di aver scelto non solo un modello economico, ma anche un modello di città.
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