A cura della Redazione

Pizzo per il clan Cesarano: arriva la condanna a 9 anni di carcere anche per Luigi Di Martino, alias 'o profeta, uno dei capi del clan Cesarano di Ponte Persica, periferia tra Pompei e Castellammare di Stabia. Arrestato nel 2016, nel corso delle indagini coordinate dalla DDA di Napoli, è venuto fuori tutto il “sistema” del racket imposto ad alcuni imprenditori del settore dei giochi. Prima al bingo, poi anche a chi riforniva i locali di slot machine e videopoker. Ieri mattina, con rito ordinario, si è chiuso il processo di primo grado per Di Martino, unico non giudicato in abbreviato. A portarlo a processo era stato il pm Giuseppe Cimmarotta, che aveva chiesto il giudizio immediato per quello che per due anni è stato il reggente del clan Cesarano. Dal 2014 al 2016 era lui a gestire i business illegali, presi in mano subito dopo la sua scarcerazione per fine pena.

“Era un uomo importante per il clan e faceva leva sulla sua caratura per intimorire le vittime”, è la tesi dell'Antimafia, che ha convinto anche i giudici del tribunale di Torre Annunziata. Nel corso del processo, testimone in aula si è presentato anche l'imprenditore taglieggiato dal clan. L’imprenditore specializzato nell’installazione di slot machine in bar e locali aveva raccontato quanto già denunciato un anno prima: “Ogni mese pagavo. Avevo paura per me e i miei familiari, e poi non volevo avere problemi sul lavoro. Però, le pretese erano diventate troppo alte. Prima era il figlio Gerardo Di Martino a gestire tutto. Poi, dopo il suo arresto, è subentrato nuovamente il papà a chiedere la rata per i carcerati. Infine, dopo l’arresto di Gigino ‘o profeta, mi fu presentato Raffaele Belviso che disse che comandava lui e aumentò le pretese fino a 2mila euro”.

La vittima, molto dettagliata, ha poi denunciato dopo il nuovo “aumento”. “Belviso volle incontrarmi in un caseificio di Castellammare. Disse che voleva 4mila euro perché io avevo clienti anche a Pompei e Scafati, nono solo a Castellammare. A quel punto ho denunciato”.

La rata veniva pagata in contanti, in una busta chiusa, consegnata spesso da un dipendente della vittima, direttamente al Kimera Cafè di Pompei. Il gestore, Aniello Falanga, è finito in carcere ed è stato condannato in abbreviato insieme agli altri per questi fatti. Resta a processo solo Di Martino, che sta affrontando il rito ordinario. Proprio quel bar è stato sequestrato due settimane fa. Per l'Antimafia il vero proprietario non era Falanga bensì Giovanni Cesarano, detto Nicola, braccio destro di Di Martino. 

Luigi Di Martino

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