A cura della Redazione

Pubblichiamo con piacere lo scritto del prof. Felicio Izzo, dirigente scolastico del Liceo "de Chirico" di Torre Annunziata, con il quale ricorda Dario Autieri, il volontario della Misericordia deceduto a soli 41 anni dopo aver combattutto contro un male incurabile. Le esequie si sono celebrate sabato scorso alla Basilica della Madonna della Neve - dove tra l'altro Dario era un educatore - ed hanno visto la partecipazione di centinaia di persone. I funerali sono stati officiati da Mons. Raffaele Russo

“Nell’ora estrema ed esitante/la salvezza è dei puri e dei disponibili” scriveva un poeta contemporaneo, aggiungendo, come chiosa, che “se sono in pochissimi che possono ascriversi alla prima categoria, far parte della seconda è solo una scelta”.

Ci sono circostanze e persone per descrivere le quali bisogna ricorrere alle parole dei poeti. Così sia anche per Dario. Quelle condizioni di purezza e disponibilità, ritenute contemporaneo privilegio di pochi, erano sicuramente sue caratteristiche. Eppure la singolarità di Dario era tale da rendere manchevoli anche le parole dei poeti. La disponibilità, in lui, non era una scelta quanto una disposizione naturale, istintiva, un atteggiamento dell’anima, verrebbe da dire.

In verità tante cose, in Dario, avevano i caratteri dell’originalità, ma sempre espressi con assoluta naturalezza, senza schermi o finzioni, dissimulazioni o infingimenti. A partire dalla figura, in bilico tra il buffo e l’epico, esaltata da quella tuta di un giallo squillante da supereroe portata con l’orgoglio di un privilegio, ma sempre  con la sua consueta misura dettata da un senso di vergogna per esserne il titolare di quel “privilegio”, e quale, poi: “volontario della Misericordie”. E cosa dire del suo modo di approcciare le persone. Attaccava, talvolta, di quei “bottoni” di autentica madreperla: un po’ tutti ne siamo stati vittime! Eppure mai un sarcasmo, una scortesia, un frettoloso interloquire, un brusco troncare. Non ci si riusciva. Un’istintiva forma di pudore impediva di incrinare quei momenti di serena trasparenza, di una tenerezza fatta di niente o, meglio, di quel poco che serve per sentirsi così, immotivatamente, in sintonia col grande respiro del mondo.

 Per questo lo conoscevano tutti e tutti lo amavano. Non aveva, Dario, nessuna maschera delle mille alle quali la “trappola sociale” della vita ci costringe. La sua, di faccia, era anche il suo modo di essere e neanche gli altri riuscivano a fingere con lui, a qualunque categoria appartenessero: politici, adolescenti, professionisti, studenti. Persino i lupi di strada, le stesse frequentate da Dario, che la vita la vivono con violento furore, si ammansivano. La semplicità, l’essere esattamente com’era costituiva  il suo talento, non un costume, una scelta. I suoi occhi di smarrito stupore erano il suo codice di comprensione del mondo; e di tutto il suo mondo. Smarriti di fronte all’incanto dell’esistere come di fronte al mistero di un male che intuiva fatale, ma senza averlo mai veramente capito. Dario era il suo sguardo, il suo sorriso sempre contenuto, la natura pulsante del suo essere. No! Dario non ha “preferito” la morte - come pure è stato detto, nell’unico punto dal quale dissento nel commosso e toccante ricordo di Mons Raffaele. Russo -, lui la morte l’ha accolta. Certo, a suo modo, con lo stesso smarrimento negli occhi riservato alla registrazione della vita in ogni suo momento. Il medesimo stupore, reso - ma esclusivamente alla nostra percezione - solo un po’ più malinconico dal volto incavato,  nell’avvertire il mite presagio dell’ora sempre esitante, nel sentire prossimo il disvelamento di un mistero, il più grande, il più antico che l’uomo conservi, quel “viaggio nella terra inesplorata dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno”.

Non sei vissuto da solo, Dario. E non sei morto, da solo. Non hai conosciuto la solitudine dei grandi, quando perdono le componenti della loro grandezza: i soldi, il potere, l’ascendente, la fama. La tua grandezza era quella degli animi semplici. Era fatta di cose che hanno la levità dell’umiltà, che si ha quasi pudore a confessarle, che accadono ed esistono così, come senza un perché: il sorriso nel sonno di un bambino, il bisbiglio d’amore che arriva al cuore e lo illumina, il mistero della Natura quando parla ai puri, “con semplicità e leggerezza, quelle degli insetti che vincono le leggi della fisica, le stesse dei ballerini che sembrano volare o dei pesci che respirano nell’acqua”.

Non so quali fossero i tuoi sogni, le tue aspirazioni, cosa ti aspettassi dal futuro. E forse, adesso, hai ottenuto tutto ciò e senza nemmeno pensarlo. Almeno così ci piace immaginare, credenti o meno che siamo.

Ti sia di conforto la terra che ti accoglie. La tua. Quella da te amata sopra ogni altra cosa e per la quale tanto hai fatto. La stessa che  ti ha onorato e celebrato. E pianto. Anche di questo dobbiamo renderti merito, Dario. Ci hai fatti sentire fieri di essere cittadini di Torre Annunziata, una città amara e commovente, dolente e nobile, feroce e generosa. Una città “difficile”, come è già stato detto,  che sembra aspettare eventi estremi per mostrare la sua parte migliore. Una città che sa coltivare il valore della memoria e quello della riconoscenza verso i suoi figli migliori. Come te, Dario. E per valori, come i tuoi, che si ha difficoltà ad elencare senza arrossire, in un mondo dove altri sono i criteri che segnano le gerarchie.

Una città, la nostra, che non ha paura di mostrare la fragilità del sentimento; che sa essere, quando vuole, viva e trasparente. Una città che sa anche aspettare. Certo, il tempo giusto dell’attesa. Il tempo giusto degli uomini giusti. E semplici, sinceri, autentici. Uomini, insomma! Come te, Dario. Come ci riproponiamo ogni volta di essere anche noi. Questa la promessa che tacitamente ci siamo scambiati quel pomeriggio, in chiesa. Così in tanti e con gli occhi fissi su un pensiero. Ancora un tuo merito, Dario. Di sicuro non l’ultimo, anche se, forse, quella promessa non la onoreremo tutti, Ma tu questo - la mutevolezza degli uomini, le loro invidie e gelosie, le mille debolezze - l’hai sempre saputo. E accettato col tuo sorriso di smarrimento e comprensione. Discreto e disteso, per sempre il tuo, ai nostri ricordi.

Non hai conosciuto l’impaccio dei desideri irrealizzabili, ma la piena dolcezza del giorno che matura, colta in ogni ora del suo passare. La corrente fragorosa del destino è stato appena un ruscello saltellante sulle rocce, al tuo sentire. Lo spettro del futuro, una feconda speranza ai tuoi occhi. Per questo non ti abbiamo dimenticato. Indicavi una strada senza  saperlo. E adesso ci sentiamo un po’ smarriti. Sì, smarriti! Come i tuoi occhi che, senza di te, non vedremo più. Almeno su questa terra.

FELICIO IZZO