A cura della Redazione

In quei cinque minuti, mentre Savastano-Esposito sta scatenando l’inferno, cancellando dalla faccia della terra la sua famiglia, lei è lì, sotto quella macchina con il volto segnato, fragile, indifesa, impaurita, persino tenera. Ed ecco che tra spari, sangue e terrore, in quello spicchio di spazio, avviene una sorta di piccola magia che forse soltanto un set cinematografico può regalare: Grazia Levante, il personaggio, la figlia più piccola del boss Gerlando, e Claudia Tranchese l’attrice che lo interpreta, si fondono in una sola grande anima.

Un’anima custodita in una donna che si lascia andare ad un pianto liberatorio, alla paura, e al terrore. Ma soprattutto ad un pianto di rabbia, e di ribellione per una vita che attraverso sentieri impervi nasconde soltanto insidie. Ecco perché, forse, quella scena della strage della famiglia Levante è rimasta impressa e stampata nella mente dei tantissimi fans della serie Gomorra. C’è tutto, in quei cinque minuti di Claudia: dalla rabbia mai sopita di aver dovuto abbandonare il suo grande amore, la danza, per un problema fisico, dopo ben 10 anni di studi, alla interminabile gavetta attraverso rinunce alle tavole del palcoscenico, e sacrifici. In quel pianto, probabilmente si è rivista bambina, esattamente come quando da piccola, magari con la stessa forza, costringeva la famiglia ad assistere ai suoi spettacoli. Ma in quei cinque minuti, c’è soprattutto l’essenza del mestiere di attrice, la manifestazione di uno straordinario talento, che fa di Claudia Tranchese una sorta di predestinata.

Claudia parlami un po’ della tua carriera.

“Ho cominciato molto presto. Praticamente da piccola.  I primi provini più importanti però, sono arrivati quando dopo aver concluso i miei studi in sociologia presso la Federico II ho deciso di trasferirmi a Roma. “I Bastardi di Pizzofalcone” di Carlo Carlei ha segnato il mio esordio in tv, nel 2017. Con “Feel like sharing” di Lorenzo Marinelli partecipo al Festival di Cannes, vincendo insieme al resto del cast il premio per la Miglior recitazione. Nel 2017 torno a Napoli per lo spettacolo “Il dottor futuro” di Antonio Guerrieri con Pasquale Palma. Poi poi arriva finalmente la chiamata tanto attesa: Gomorra 4! Nel frattempo cortometraggi, videoclip e tanta palestra di vita”.

Perché Gomorra e perché il ruolo di Grazia?

“Credo sia stato un segno del destino! Avevo già fatto i provini per Gomorra per le stagioni precedenti ma non era andata. Quando ho provato i panni di Grazia per la prima volta, ho sentito una sensazione diversa. Questo personaggio me lo sentivo addosso, con tutto il peso della sua emotività. In quel periodo facevo da spalla ai provini (sì, come Salvatore Esposito!) perché mi era stato detto che non ci fossero ruoli per me, così facevo da interlocutore a tutti gli attori provinanti, anche quelli che poi sono diventati “la mia famiglia Levante”. Quando mi hanno comunicato che era arrivato anche il mio turno non ci credevo, è stato bellissimo!”

 C'è un modello di attrice a cui ti ispiri?

“Rubo con gli occhi da sempre. Non avendo frequentato accademie mi sono formata guardando chi questo mestiere lo faceva, e allora ho avuto il tempo di innamorarmi di aspetti diversi di varie attrici, ora facendo un solo nome di riferimento mi sentirei di far un torto alle altre... però posso dirti in segreto chi amo follemente? Marion Cotillard!

Perchè Gomorra da un lato ha così tanto successo e dall'altro viene fortemente criticato, parlando di “messaggio negativo”?

“Mi stupirebbe il contrario. E' inevitabile che un prodotto così popolare e di successo sia oggetto di continue critiche. Gomorra è una serie televisiva (quindi un prodotto di intrattenimento!) che si ispira liberamente a fatti accaduti ma non si propone di riportare fedelmente la realtà criminale, non è un documentario! Credo che, in generale, la demonizzazione del genere crime, al Cinema come in tv, sia a dir poco anacronistica e fine a se stessa”

Da piu parti si parla però di emulazione….

“Colpevolizzare la serie perché indurrebbe un processo di emulazione tra i più giovani, equivale a condannare gran parte della storia dell'audiovisivo. È proprio il contrario: gli sceneggiatori ci tengono a mostrare l'inferno a cui si auto condannano quelli che scelgono la strada della malavita.  La morte resta la protagonista indiscussa di tutte le stagioni!".

Cosa hai provato ad interpretare la figlia di una famiglia criminale?

“E' stata la mia prima volta e mi sono lasciata guidare dai sentimenti repressi che accomunano gli esseri umani, rendendoli simili anche se con vite completamente diverse. Marco d'Amore mi ha aiutata a rendere Grazia sensibile a qualsiasi cosa: con quello sguardo sempre attento controlla tutto, sente tutto, reprime e cerca di farsi spazio, ma ogni volta le viene negata la possibilità solo perché è donna. Ho sviluppato un altissimo grado di empatia con la sua condizione di lotta continua e man mano mi accorgevo di aggiungere sempre di più un pezzetto della sua personalità”.

Nelle vesti di Grazia quale messaggio manderesti a chi lotta contro la camorra?

“Gli sceneggiatori hanno delineato una figlia insofferente al sistema patriarcale e criminoso della sua famiglia, quindi è prima lei a vivere una guerra interna tra i due fuochi. Cosa farebbe non lo so, ma cosa penserebbe lo so bene: non vi fermate!”.

 Quali intime sensazioni hai provato durante la scena dell'agguato alla famiglia Levante? Era tutto studiato o frutto anche del momento sul set?

“Terrore, totale. Mi sono liberata di qualsiasi pensiero e inibizione per rendermi quanto più sensibile a quello che accadeva: gli spari, il sangue, i vetri che saltavano, mi sono lasciata guidare da tutto sentendolo così vero che dopo tremavo come una foglia. Mi piace costruire sul set insieme al regista, e Cupellini mi ha dato molta fiducia nel lasciarmi via libera allo sfogo. In quel pianto liberatorio credo di averci messo dentro anche tutta la rabbia repressa di una Grazia che non avrà più la possibilità di dire ai suoi genitori che era diversa”.

Con chi hai legato di più sul set?

“Con i componenti della Famiglia Levante, ci è bastato pochissimo per trovare quella sintonia e familiarità che rende coeso un gruppo di lavoro. E interpretare una famiglia richiede un bel gioco di squadra e noi non abbiamo faticato troppo a sentirci uniti”

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